I giovani e la sfida alla morte per gioco nella sospensione tra la noia e l’ansia

I giovani e la sfida alla morte per gioco nella sospensione tra la noia e l’ansia

di Rossano Buccioni
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Martedì 11 Agosto 2020, 10:50
Non vi era nulla di visionario né di anticipatorio nelle immagini dei giovanissimi di Monte Urano che, pur non restando sdraiati per tentare di salvarsi all’ultimo momento come accade nelle versioni più truci del “challenge” (sfida social), si alzavano scappando non appena intuivano l’imminente arrivo delle auto. I ragazzi sono stati identificati ed anche se nessuno di loro ha corso seriamente il pericolo di essere investito, hanno fornito pur sempre uno spettacolo di contingenza sociale pura, libera da ogni necessità logica. Forse solo il balzo felino di corpi giocosamente panicati manteneva una parvenza di senso. Certamente non si tratta di corpi intesi come baricentro del processo di civilizzazione, linea di demarcazione tra comportamenti approvati e repressi secondo la lezione del sociologo Norbert Elias; né si tratta di corpi dominati dalla lotta tra un super-io sociale ed un ego individuale, in vista della condivisione di norme da leggere all’insegna di limitazioni introiettate. Quel set stradale sospeso tra farsa e tragedia, testimoniava la perdita di quegli “orizzonti di senso” che sono inaccessibili alla ragione strumentale che presiede la tecnica ed a quella utilitaristica che presiede il mercato, per cui all’individuo iper-moderno altro non resta che lo smarrimento nella frammentazione infinita del sé. Nasce da qui “l’individualismo di massa” mosso non tanto da scelte personali, ma dalla mancanza di riferimenti sociali, che non siano strumentali o mercantili. Dall’individualismo emerge la cultura dell’egocentrismo che, prima di essere nevrosi da addebitare ad un limite dello sviluppo psichico, diviene condizione ovvia in cui viene a trovarsi ogni individuo cui è negato qualsiasi orizzonte di senso che trascenda il culto della propria individualità. La cultura del narcisismo che vi trova alimento, impedisce di uscire dai limiti ristretti del proprio io, per cui ciascuno, chiamato alla propria autorealizzazione, decide da sé in che cosa essa consista, senza che nessuno possa interferire in questa cieca autodeterminazione. Nei giovani questa condizione determina un dominio incontrastato del contingente (essere così, ma sapendo di poter essere anche altrimenti), ed in questo scenario osserviamo un numero crescente di conflitti elettronici, combattuti dagli impianti di videosorveglianza urbana e dalla tendenza dei nativi digitali a dislocare in un altrove qualsiasi l’unicità di un dramma o di una gioia. Come sempre gli strumenti psicosociali di analisi dell’agire, cercano di mettere in luce forme estreme di funzionamenti mentali che appartenendo al confine tra normalità e devianza, emergono in quel territorio infido in cui un sintomo patologico può diventare così comune da esser rappresentato come banale. Sono ragazzi cresciuti in contesti di diffuse micro-patologie, all’interno di una dimensione di “precaria ambiguità” tipica del tempo presente, in cui persone anche per bene, disinvoltamente possono entrare in collusione con aspetti deteriori del vivere civile, con la corruzione e la degradazione di strutture istituzionali. I piccoli vandalismi e il danneggiamento frustrato, rappresentano la ricezione giovanile di questa dimensione sociale discreta ed inquinata, che produce indifferenza, ma anche un ardente bisogno di approvazione. Prendere anche bei voti e giocare al challenge, evidenzia lo svuotarsi di ciò che il filosofo Umberto Galimberti definisce “segreto della domanda”, la preziosa chiave interpretativa di un mondo dove facilmente un dato si rovescia nel suo contrario, risultando sempre più ardua la personale costruzione dell’identità di ruolo nella società complessa. Ha senso domandarsi come andassero a scuola e con quale voto in condotta questi ragazzi? In che senso probabilmente erano considerati “bravi ragazzi”? Citando Ernst Jünger, lo psichiatra Luigi Zoja ci ricorda come allo scoppio della grande Guerra, i giovani volontari volevano appartenere più ai combattimenti che alla nazione. “Erano cresciuti in un’Europa in cui le ricchezze aumentavano, le malattie diminuivano ed i grandi conflitti sembravano scomparsi. Qualunque cosa dunque, ma non la noia….”. Negli eserciti si elevavano le tensioni mistiche del XX secolo, anche se gli orrori dei due conflitti mondiali avrebbero fatto cambiare idea alla maggioranza degli europei. La post-modernità somministra delusioni omeopatiche all’uomo senza qualità, risparmiandoci la follia della guerra, ma consentendo a violenza ed odio nuove modalità espressive, anche sorprendenti: dalla strada allo stadio; dalle dipendenze al disagio diffuso; dalle relazioni amorose ai legami familiari. La socializzazione dei giovani si sviluppa dentro un rovesciamento: il disincanto del mondo, desacralizzando l’ordine sociale, ha fatto si che gli oggetti e le persone rinunciassero ai loro rimandi all’infinito, per ridursi a mera realtà sensibile. Il dominio della dimensione “factual”, da un lato fa esplodere l’individualismo e dall’altro, fa ritirare le cariche psichiche prima proiettate tanto sulle cose quanto su altre persone. Le relazioni cedono il passo al dominio degli oggetti, con i giovani che spesso non riescono ad operare un’adeguata distinzione tra i propri confini e quelli della cosa. Lo smartphone come protesi dell’io, dimostra che l’oggetto tecnico ormai svolge una funzione di accompagnamento testimoniale verso la crescita perché, grazie alla sua presenza ed alla strepitosa capacità di relazione che offre, i ragazzi si sentono in grado di effettuare anche operazioni rischiose, come se la fusione con la cosa inanimata rappresentasse il tipo di rapporto che meglio li esprime. A Monte Urano come in mille altri luoghi del villaggio globale.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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