La festa come bisogno di futuro e rigenerazione del senso del tempo

La festa come bisogno di futuro e rigenerazione del senso del tempo

di Rossano Buccioni
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Martedì 29 Dicembre 2020, 03:10

La modernità non ha portato all’eclissi del senso del sacro, ma piuttosto, ad una sua sostanziale trasformazione, dando vita a forme post-religiose di festività all’interno di una indiscutibile trasformazione del senso del tempo. Nelle feste “secolari” la dimensione dominante del tempo libero esalta l’esperienza del divertimento e della ricreazione in cui svolge un ruolo centrale il costante richiamo ai sensi al culmine dell’universo soggettivato della scelta. Le dinamiche della secolarizzazione hanno inciso profondamente sul processo festivo e sulle nostre modalità di interpretarlo, sfumando i confini tra sacro e profano, al punto che ci si chiede oggi se sia ancora lecito distinguere una festa religiosa da una laica e se non sia più proficuo cercare all’interno dello stesso evento festivo traiettorie di esperienza orientate alla valorizzazione della dimensione sacrale del tempo. Se nella festa secolarizzata è l’evento che crea una comunità provvisoria e dunque destinata a dissolversi, nella tradizione religiosa la comunità preesiste comunque ad ogni evento, su cui dominano superiori orizzonti di senso, destinati però a perdere il loro valore intrinseco, facendo diventare la festa una sorta di “negativo” del lavoro, soprattutto col prevalere della razionalità funzionale. Mai come quest’anno la sospensione dovuta alla crisi pandemica svela la tacita simbiosi tra festa tradizionale e mercato, potenziata dall’industria pubblicitaria in una rappresentazione della stessa quotidianità come “festa perpetua”, costruita sul culto di una opulenza felice che estende sul tempo festivo logiche feriali di mercificazione. Se la festa è tempo del senso, quindi molto più della mera sintesi di ruolo sociale e bisogno individuale, nella società complessa stenta a mantenere la sua natura di vissuto autonomo, di periodo in cui “dare tempo al tempo”, predisponendo ai vissuti religiosi del comando e dell’attesa, anche se il comando – relativamente all’inserzione del singolo in una dimensione corale di senso - sembra opporsi all’idea di festa come espressione di spontaneità. Il tempo pandemico ci costringe al paradosso per cui nella festa, il comando si esprime nel non festeggiarla pubblicamente, bensì tornando ad una dimensione di rallentamento e di attesa, alternativa alla matrice consumistico/secolare della festa. Il sociologo Cleto Corposanto sostiene che la pandemia ci costringe a recuperare della festa una dimensione intimistica da intendere come separatezza forzata e non scelta, solipsismo decretato e non maturato all’interno di un percorso di rigenerazione del senso del tempo problematicamente sommato con l’abuso del concetto di distanza sociale, dato che la garanzia di unità della festa ed il cooperare al “fare comunità” sono esattamente il contrario del distanziamento sociale nuovamente imposto in questa fine d’anno. Contrariamente alla celebre tesi dell’antropologo Gerardus Van der Leeuw per cui “… la Festa è il tempo per eccellenza, il tempo distinto dalla durata in quanto particolarmente potente”, dopo aver abolito per ragioni strettamente sanitarie la natura pro-sociale dell’incontro, gli effetti combinati di pandemia e ferialità sembrano associarsi inopinatamente contro questo Natale, in un continuum emergenziale che spegne anzitempo ogni scintilla di rigenerazione temporale.

Le analisi del nostro rapporto con il tempo realizzate dal sociologo tedesco Hartmut Rosa, ci aiutano a comprendere come gli ineluttabili ritmi di vita a cui ci pieghiamo, rappresentino uno dei più forti dinamismi di “sociazione” nell’epoca contemporanea. In una società dove la funzione prende il posto degli orizzonti di senso, una trama fittissima di imperativi temporali - alla cui logica acconsentiamo tacitamente - determina seri effetti nell’adeguamento del tempo vissuto ai codici dell’accelerazione tecnica dell’esistenza. La sensazione che mutino sempre più in fretta i tempi sociali (con l’ovvia ripercussione sui ritmi vita diventati ormai frenetici), è determinata dal flusso di innovazioni – tecniche e non - che non si limitano ad essere sempre più potenti, ma realizzano vere e proprie discontinuità nella struttura sociale, rendendo il “dislivello prometeico” uno degli elementi cardine del senso di inadeguatezza di molte persone. Se l’accelerazione sociale produce la consapevolezza di una costante scarsità di tempo, è sorprendente come non si sia verificata una riduzione del tempo libero, bensì un suo aumento. Però non si tratta di un tempo rigenerante, ma di un singhiozzo della durata che attende solo di essere nuovamente impiegato nella fabbrica competente del sé. La società secolarizzata fa si che gli attori sociali vengano inclusi attraverso una implacabile scansione temporale che incastra le competenze dell’io-ruolo secondo modalità coerenti con i modelli vincenti di efficacia funzionale. Ne risentono anche quelle forme di esperienza che, sospese tra tradizione e secolarismo, cercavano di restituire la “vita in frammenti” (Z. Bauman) ad una corposa dimensione di senso. Si pensi alla convivialità natalizia ed alle sue prelibatezze: mutando il suo codice simbolico, il cibo ha catalizzato la preoccupazione sociale in tempi di Covid, diventando rifugio psicologico nel controllo semi-regressivo dell’angoscia, con lo stato d’eccezione che connotandone forzatamente le modalità di consumo, lo ha restituito alle antiche brame panicate dell’approvvigionamento consolatorio e dell’accaparramento. Nello scenario pandemico, anche il cibo della festa subisce una oscillazione semantica che lo precipita, da ricercata denotazione di benessere relazionale a bene rifugio evenemenziale, nutrendocene distanziati da coloro che dovevano garantirne gioiosa condivisione.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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