La modernità non ha portato all’eclissi del senso del sacro, ma piuttosto, ad una sua sostanziale trasformazione, dando vita a forme post-religiose di festività all’interno di una indiscutibile trasformazione del senso del tempo. Nelle feste “secolari” la dimensione dominante del tempo libero esalta l’esperienza del divertimento e della ricreazione in cui svolge un ruolo centrale il costante richiamo ai sensi al culmine dell’universo soggettivato della scelta. Le dinamiche della secolarizzazione hanno inciso profondamente sul processo festivo e sulle nostre modalità di interpretarlo, sfumando i confini tra sacro e profano, al punto che ci si chiede oggi se sia ancora lecito distinguere una festa religiosa da una laica e se non sia più proficuo cercare all’interno dello stesso evento festivo traiettorie di esperienza orientate alla valorizzazione della dimensione sacrale del tempo. Se nella festa secolarizzata è l’evento che crea una comunità provvisoria e dunque destinata a dissolversi, nella tradizione religiosa la comunità preesiste comunque ad ogni evento, su cui dominano superiori orizzonti di senso, destinati però a perdere il loro valore intrinseco, facendo diventare la festa una sorta di “negativo” del lavoro, soprattutto col prevalere della razionalità funzionale. Mai come quest’anno la sospensione dovuta alla crisi pandemica svela la tacita simbiosi tra festa tradizionale e mercato, potenziata dall’industria pubblicitaria in una rappresentazione della stessa quotidianità come “festa perpetua”, costruita sul culto di una opulenza felice che estende sul tempo festivo logiche feriali di mercificazione. Se la festa è tempo del senso, quindi molto più della mera sintesi di ruolo sociale e bisogno individuale, nella società complessa stenta a mantenere la sua natura di vissuto autonomo, di periodo in cui “dare tempo al tempo”, predisponendo ai vissuti religiosi del comando e dell’attesa, anche se il comando – relativamente all’inserzione del singolo in una dimensione corale di senso - sembra opporsi all’idea di festa come espressione di spontaneità. Il tempo pandemico ci costringe al paradosso per cui nella festa, il comando si esprime nel non festeggiarla pubblicamente, bensì tornando ad una dimensione di rallentamento e di attesa, alternativa alla matrice consumistico/secolare della festa. Il sociologo Cleto Corposanto sostiene che la pandemia ci costringe a recuperare della festa una dimensione intimistica da intendere come separatezza forzata e non scelta, solipsismo decretato e non maturato all’interno di un percorso di rigenerazione del senso del tempo problematicamente sommato con l’abuso del concetto di distanza sociale, dato che la garanzia di unità della festa ed il cooperare al “fare comunità” sono esattamente il contrario del distanziamento sociale nuovamente imposto in questa fine d’anno. Contrariamente alla celebre tesi dell’antropologo Gerardus Van der Leeuw per cui “… la Festa è il tempo per eccellenza, il tempo distinto dalla durata in quanto particolarmente potente”, dopo aver abolito per ragioni strettamente sanitarie la natura pro-sociale dell’incontro, gli effetti combinati di pandemia e ferialità sembrano associarsi inopinatamente contro questo Natale, in un continuum emergenziale che spegne anzitempo ogni scintilla di rigenerazione temporale.
*Sociologo della devianza e del mutamento sociale