La crisi ecologica globale e il vero scontro di civiltà

La crisi ecologica globale e il vero scontro di civiltà

di Rossano Buccioni
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Martedì 5 Aprile 2022, 10:10

Uno degli effetti principali dello scatenarsi del “fattore guerra” consiste nel sentirsi costretti ad occuparci delle conseguenze di uno scellerato conflitto militare sapendo bene che la guerra non è il vero problema del nostro tempo. Il tema vero è la crisi ecologica globale di fronte alla quale la minaccia di sparizione del genere umano per conflitto atomico ormai si aggiunge per gioco probabilistico al rischio di sparizione per la incipiente catastrofe ecologica, permanendo le tiepide politiche di contrasto ai cambiamenti climatici. Nel quadro geopolitico degli anni 2000 la Germania e l’Europa volevano essere delle potenze “erbivore”, cioè concentrate allo sviluppo di un potere economico-finanziario progressivamente aperto ai dettami della società della conoscenza, della civiltà giuridica e della trasformazione in chiave ecologica delle maggiori filiere produttive. Una potenza erbivora si nutre di specifiche visioni dell’uomo e della società, ma ci siamo progressivamente accorti – specialmente dopo l’avvento di alcune figure autocratiche – che continuavano ad esistere anche potenze “carnivore”, che negavano le piattaforme interpretative della globalizzazione nel pieno recupero della guerra, dello sfruttamento ambientale e della negazione dei diritti umani essenziali. Ci siamo anche resi conto che i carnivori non si possono fronteggiare con strategie erbivore, sapendo bene che, dovendo agire la stessa aggressività, si dovrà poi accettare una costruzione della realtà tipica di quei rapporti di forza che – oltre ogni ragionevole dubbio - stanno devastando il pianeta. In passato sono state avanzate delle interessanti connessioni tra riconoscimento dei parametri essenziali di una “ecologia umana” e rispetto delle risorse ambientali, con le culture dello sviluppo sostenibile che proponevano un inedito modello di progresso economico. La messa in opera del cingolo militare si ispira invece ad una realtà che esiste solo nelle costruzioni top/down dei rapporti sociali e degli ovvi pre-requisiti predatori dell’ambiente, presupposta proprio da quei paesi (Russia, Cina, India) che negano la crisi ecologica per le stesse ragioni per le quali rifiutano i criteri-base dell’ecologia umana e della “società aperta”. Il vero dramma che stiamo vivendo risiede nel fatto che il pianeta non può reggere costruzioni della realtà così contrapposte. Non è tanto una questione di “nè/né”, ma un drammatico out/out che in questo momento è reso invisibile da un orrendo spostamento di interesse sul fragore delle armi e sulla sua perimetrazione mediatica centrata sulla paura. Il ritorno della guerra come soluzione dei conflitti cancella un’intera agenda politica (quella della green economy, della società della conoscenza e della civiltà dei diritti), con un’atmosfera da piena guerra fredda che ha portato alla forte militarizzazione del concetto di sicurezza, seconda per importanza solo allo shock socio-culturale che si venne a creare dopo gli attentati dell’11-09-2001.

Dentro la messa in discussione dell’intera agenda economico-politica della sostenibilità, vi sono alcuni elementi di sfondo: in primo luogo il ritorno della guerra come propulsore del cambiamento socio-strutturale; la retrocessione del c.d. “pensiero della differenza”, con la negazione di una nuova stagione emancipativa del femminile e la coesione - nella logica dei blocchi contrapposti – dei paesi che si sono sempre detti contrari all’adozione di misure per il contenimento degli effetti del cambiamento climatico. Ora quei paesi costituiscono un blocco di potere che si va cementando e le pratiche di negazione dei problemi ambientali risultano promosse a strategie globali di interpretazione della potenza economica da un lato e politico-militare dall’altro. La guerra in Ucraina sembra avere obiettivi demolitivi a lungo termine riguardanti il modello di cittadino e di società che l’occidente si è dato. In Occidente è emersa una struttura sociale conseguente alla perdita di valori forti e di guide stabili che, da un lato configura il rischio di un relativismo radicale, ma dall’altro apre inediti spazi di libertà e protagonismo ai singoli individui. Il consumo e l’esonero tecnologico non hanno mutato la nostra società in una massa di individui isolati ed indolenti, del tutto incapaci di responsabilità politica o di legami solidali. Al contrario di un principio d’ordine autoritario, la c.d. “società orizzontale” propone un modello di rapporti sociali centrati sull’uguaglianza tra pari, senza gerarchie di valore che però non significano assenza di struttura e di criteri razionali dell’agire. Le strutture di potere dei Paesi che leggono in chiave autoritaria la realtà si oppongono frontalmente alla società orizzontale (o “società aperta”), impedendo alle persone di costituirsi in base ad una eguaglianza reale di diritti e di opportunità di auto-realizzazione. Al di la del cesello eziologico che lega - spesso con capziosità- l’effetto b alla causa a, vale l’opinione dei sociologo Marco Marzano e della politologa Nadia Urbinati che sostengono come “ nella società orizzontale le persone erano abituate ad acquistare invece che perdere potere, intendendo per potere la capacità di far accadere le cose insieme. (…) Come nell’accezione proposta a suo tempo da Hannah Harendt per la quale il potere – al contrario della violenza – consiste nella capacità umana di agire di concerto”. Recentemente il giornalista Lucio Caracciolo, fondatore della rivista “Limes”, ha confessato il suo scoramento per la scarsa consapevolezza dell’uomo della strada sulle conseguenze a medio-lungo termine del conflitto ucraino. I motivi di cui sopra muovono a condividere la sua preoccupazione.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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