L’enigma socio-culturale delle nuove gang giovanili

L’enigma socio-culturale delle nuove gang giovanili

di Rossano Buccioni
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Martedì 31 Maggio 2022, 02:50

Indiscusse protagoniste delle cronache quotidiane, le gang giovanili costituiscono un rompicapo sociologico, incarnando una sorta di convergenza emergente di fenomeni sociali assai diversi. Alcuni osservatori, rigettando la prospettiva scoraggiante del mutamento antropologico, definiscono “di tendenza” il tema della violenza e del disagio giovanile, ammettendo indirettamente l’impossibilità di perimetrarne i nuovi dinamismi alla base di un inedito rapporto individuo/società. Se, sociologicamente, si possono rintracciare per grandi linee dei tratti comuni alle numerose gang giovanili che dimorano in particolare nei quartieri periferici, emarginati o segregati delle città, le loro caratteristiche salienti variano a seconda delle epoche storiche e dei contesti sociali di riferimento. Alle tradizionali connotazioni del problema se ne aggiungono altre di carattere più generale, inerenti la matrice culturale dei processi di esclusione o di mancata assimilazione, vale a dire della violenza come riflesso condizionato delle crescenti difficoltà inclusive a fronte di precise richieste conformizzanti divenute insostenibili per un sistema di personalità in formazione che ricerca conferme all’interno di modelli di efficienza viralizzati dall’ambiente mediatico. La novità dirompente del fenomeno si esprime nell’impossibilità di utilizzare un modello di gang giovanile valido per i molteplici casi osservati, con i tentativi di schematizzazione che cercano di ispirarsi ad un modello deterministico di ratifica sociale della devianza, nel vano tentativo di prevederne le derive. Il fenomeno delle gang giovanili, ponendosi storicamente a valle dei processi di socializzazione, sembra guadagnare centralità in una dimensione sociale emergente, interpretabile – come si diceva – come “cambiamento antropologico”, dentro la comprensione della condizione umana nei termini di una crescente smaterializzazione della realtà. Si tratta di una inedita determinazione dell’umano al limite tra de-realizzazione ed interiorizzazione di forme estreme di contingenza, che elegge la dis-identità a criterio di riferimento, oltre ogni schematismo normale/patologico o adeguamento/devianza, calibrato sulla instabile permanenza di modelli di socializzazione tardivamente orientati ad un Telic system. Se in questo potente processo trasformativo volessimo rintracciare un legame con forme precedenti di devianza, potremmo ancora identificarla nelle forme di disuguaglianza relative allo status socio-economico, interpretabili come fomite di una subalternità materiale che crea giovani “invisibili”, senza alcuna prospettiva di futuro nè condivisione delle norme etiche accettate dai più. Ma è soprattutto la “diseguaglianza simbolica” a determinare i quadri più interessanti da cui osservare sia le trasformazioni delle costellazioni agire/esperire investite dalla ridefinizione di rapporti sociali improntati alla velocizzazione delle relazioni, sia l’indubbia reversibilità/inconsistenza del rapporto di informazione che vi si struttura.

L’effetto generale che sembra determinarsi è quello di un facile innesto della devianza nel tessuto sociale sano e di una concomitante impossibilità di determinarne le cause in chiave preventiva. Si sottovalutano tali linee causali profonde se l’analisi continua a trincerarsi dietro spiegazioni rassicuranti circa l’immutata “capacità del sociale” di farsi carico delle nuove forme di devianza, spesso raggelanti simbionti di quella che ci piace definire normalità, “come se attori estranei al vivere quotidiano di una comunità si affacciassero sul territorio spezzando momentaneamente la trama delle relazioni e delle condizioni di vita che lo caratterizzano” (F. Prina). Dove la forte incidenza delle “variabili strutturali” (marginalità, esclusione) limita la funzione delle “variabili di processo” (incarnate da agenzie di socializzazione come famiglia, scuola o associazionismo), le gang giovanili finiscono per assicurare protezione e senso di appartenenza ai loro membri, in una sorta di supplenza organicamente prodotta dalle logiche allucinate del gruppo dei pari. Allora, molti giovani “phono sapiens” vivono direttamente a contatto con le macchine della generalizzazione, senza vere e proprie mediazioni culturali che possano agire - in chiave interdittiva e/o selettiva - su personalità che vogliono solo esperire, divertirsi e giocare, congedandosi dalla “libertà intesa come azione” (H. Arendt). In riferimento all’emergere di elementi socio-strutturali dirompenti, inedite espressioni della civiltà delle “non cose” - che inceneriscono sia le norme comportamentali sia i fattori socioculturali da interiorizzare - rinforzano notevolmente le dinamiche del comportamento gruppale definito da “branco”, riconducibile alle dinamiche sociali in group (gruppo del “noi”) out group (gruppo degli “altri”), con l’adozione di rigide logiche esclusione/inclusione. I membri delle baby gang sembrano patire un deficit Super-egoico civico, compensando una condizione paranoide - derivante dalla loro dimensione di marginalizzazione legata alla precarietà ed incline all’espressione di aggressività - che nel loro universo deviante impedirà l’identificazione con la vittima, dato che il gruppo deve caratterizzarsi per la sua “sociopatia”. Il tutto in un’epoca in cui si ricerca l’esibizione pubblica dei propri vissuti emotivi per acquisire visibilità e notorietà, anche negativa. La deviazione collettiva non persegue uno scopo razionale preciso, perché emerge all’interno di un gruppo emotivo che ricercando sensazioni di auto-efficacia e superiorità, attraverso la dinamica del “capro espiatorio”, colpisce stupidamente persone ritenute deboli, proiettando su di esse un avvelenato complesso di inferiorità.

* Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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