Maradona e la società di massa dove non si può “eccellere normalmente”

Maradona e la società di massa dove non si può “eccellere normalmente”

di Rossano Buccioni
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Martedì 8 Dicembre 2020, 11:05

Il poeta premio Nobel Eugenio Montale affermò che «dallo stadio calcistico il tifoso retrocede ad altro stadio: quello della sua stessa infanzia», attraversando tragici smarrimenti ed altrettanto prodigiosi recuperi emozionali. Nelle ultime settimane i telegiornali hanno sempre aperto le loro edizioni con l’emergenza sanitaria, ponendo in second’ordine anche l’elezione alla Casa Bianca del senatore Joe Biden. L’unica eccezione si è avuta con la scomparsa di Diego Armando Maradona. La sua tragica uscita di scena, è certamente leggibile come metafora della fragilità delle tigri di carta del divismo sportivo, capaci di incarnare mitologie collettive pagando spesso a caro prezzo il non aver vissuto propriamente per sé, ma quasi esclusivamente in funzione dell’offerta di strategie di identificazione con l’uomo di successo a beneficio di folle estasiate di fans. Nel mondo secolarizzato, il campione sportivo diventa un elemento sacrale moderno, eroe laico di un sentimento propriamente religioso, in epoche lontane ispirato da testimoni della virtù e della Fede, alla ricerca di quell’Exemplum destinato a legittimare tra gli uomini la concezione gerarchica del cosmo inscritta nel contesto sociale. Nella società attuale, lo sport alimenta forti proiezioni oniriche sul campione – incaricato dai suoi ammiratori di vincere anche per loro - e non a caso il “Divo” (lat. divus, divino) ed il campione (in antico l’atleta di Dio), sono categorie connaturate alla matrice teologica della società che oggi esprimono l’esigenza di ri-specificarsi in nuove dimensioni legittimanti. La morte di un campione priva l’inconscio collettivo della sua possibilità di incarnarsi nella concretezza dell’esistenza, originando forme di cordoglio che, sommandosi al fanatismo, risalgono la matrice popolaresca del gioco all’interno di un contagiante struggimento idolatrico. Non dimentichiamo che lo sport offre da sempre forti meccanismi di appropriazione del fenomeno religioso. Desiderosi di farci parte attiva di un rapporto non astratto col sacro, grazie allo sport costruiamo socialmente esperienze al limite del magico. Inoltre, la sacralizzazione sportiva assume concrete fisionomie con la morte precoce del campione che contribuisce ad eternizzarne la grandezza, inserendola in un contesto votivo che si impone soprattutto nei luoghi che hanno consacrato le sue epopee agonistiche. Lo storico Daniele Marchesini, in un volume intitolato “Eroi dello sport”, definisce «statuolatria» e «stadiolatria» la rilevanza assunta nei contesti urbani dal «monumentale sportivo”, elemento neo-sacrale in un contesto altamente secolare. La mesta uscita di scena del campione argentino, interpretata in modo anche truce dai media, ha ricevuto nobili attenzioni in chiave analitica, specialmente quando orientate allo studio degli effetti sociali del calcio. Il filosofo Massimo Cacciari ha chiamato in causa il maledettismo calcistico di Maradona che, come celeberrimi casi letterari, rappresenta il topos del genio che si autodistrugge.

Invece di riproporre il dualismo tra campione Apollineo (Pelè) - schivo custode di un’idea di calcio che necessitava della misura per magnificare la dismisura del suo talento - e campione Dionisiaco, di cui Maradona incarnava alla perfezione le esagerazioni, appare nitida la suggestione fornita dall’antropologo Marino Niola che già in un volume intitolato “Diventare Don Giovanni”, argomentava sul doppio volto della dissolutezza, riuscendo a coniugare divismo sportivo e libertinismo. Se è vero che «lascivia, genialità e fastidio per ogni regola nel mito di don Giovanni si incrociano e si combinano in schemi significativi prima di iniziare un lungo viaggio nell’immaginario collettivo», Maradona ha incarnato queste caratteristiche assecondando l’essenza del mito che sta nel gioco delle trasformazioni che si richiamano e si alternano. Il “Pibe de oro” incarnava il topos del “burlador” (beffardo) dongiovanneo, dentro un libertinismo talentuoso ed irritante che del contagio emozionale del calcio sfruttava la coralità eroica, garantendo al mito cittadinanza nella società differenziata. Il diventare ricco e famoso per poi sperperare tutto mettendo alla prova la tenuta delle passioni plebee che lo circondavano, chiama in causa quella “coincidentia oppositorum” che trionfa con il goal di mano all’Inghilterra, ottenendo il massimo risultato agonistico in modo opposto alla regola che lo rende pratica sociale. Nel teatro immaginifico dell’eroismo sportivo, la regola beffata proietta il gesto atletico in un cosmo carnevalesco dove la geniale inversione conquista folle che, patendo la norma, agognano cantori dell’eccezione. Il talento di Maradona era vissuto come se la passione lottasse contro lo sport inteso come macchina sociale, un talento destinato a sottrarre intensità di vita alla norma dello star system. Il declino del campione, teneramente legato ai ricordi agonistici lentamente divorati dal suo daimon, non è nemmeno leggibile all’interno di quella che lo psichiatra Fabrizio Asioli definisce ”relazione di cura”, dove il rapporto fiduciario con un medico può innalzare un argine terapeutico contro quella condanna all’infelicità che Maradona confessò ad uno dei suoi più importanti allenatori. Nella società di massa non si può “eccellere normalmente” come promessoci dai mantra della pubblicità e dell’industria; allora, l’autentico talento sportivo ci conferma che è davvero per pochi quel che la società dei consumi di massa sostiene essere appannaggio di molti. I miti sportivi, spesso in bilico tra salvatori della patria e “santi peccatori”, mostrano che il talento lo si è e non lo si possiede, magari per usarlo in vista di scopi che con la sua purezza nulla avrebbero avuto a che fare. 

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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