L’acqua contaminata di Fukushima e i pesci che un giorno mangeremo

L’acqua contaminata di Fukushima e i pesci che un giorno mangeremo

di Roberto Danovaro
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Giovedì 15 Aprile 2021, 10:15 - Ultimo aggiornamento: 28 Aprile, 20:27

A Fukushima dieci anni dopo l’incidente nucleare i problemi per l’ambiente e la salute dell’Uomo sono, ancora più che mai, attuali. Il governo Giapponese ha confermato che rilascerà nell’Oceano Pacifico l’acqua contaminata impiegata per raffreddare i reattori danneggiati dall’incidente nucleare. Lo ha comunicato il premier Yoshihide Suga, malgrado la preventiva alzata di scudi dell’opinione pubblica mondiale, dei movimenti ecologisti, oltre all’opposizione dell’industria della pesca e dei rappresentanti dell’agricoltura locale. Non meno forte la reazione della Cina e della Corea. Ma di cosa si tratta esattamente? La manutenzione della centrale di Fukushima Daiichi genera 140 tonnellate di acqua contaminata al giorno che gli impianti di bonifica non possono trattare per eliminare il trizio, l’isotopo radioattivo dell’idrogeno. Negli oltre mille serbatoi dell’impianto di Fukushima si sono accumulati 1,25 milioni di tonnellate di liquido radioattivo che verrà progressivamente rilasciato in mare. Secondo il gestore della centrale, la Tokyo Electric Power (Tepco), le cisterne raggiungeranno la massima capacità consentita entro l’estate del 2022. Lo scarico delle acque comincerà tra due anni e durerà un periodo indefinito, anche di molti anni. Tuttavia, questa diluizione non diminuirà il problema, al contrario rischia di trasformarlo in un inquinamento radioattivo di tipo cronico. Le reazioni internazionali alla notizia sono ovviamente contrarie. Il problema è che questa decisione del Giappone viola non solo il principio precauzionale di non rilasciare nell’ambiente sostanze potenzialmente dannose, ma anche le conoscenze scientifiche e il buonsenso. La ricerca marina insegna che ogni sostanza rilasciata in mare anche allo stato disciolto viene incorporata nei minuscoli organismi del plancton, in particolare nella componente vegetale, il fitoplancton, che produce circa il 50% dell’ossigeno che respiriamo. Quello che viene incorporato in questi organismi entra nella rete trofica, poiché il fitoplancton viene mangiato dagli erbivori marini come i piccoli crostacei dello zooplancton e poi dalle larve dei pesci e così via dai pesci piccoli a quelli grandi, per arrivare ai grandi predatori oceanici come il tonno e gli squali. In questo processo il rischio di radioattività accumulata dagli organismi si amplifica, perché ogni predatore potrebbe accumula anche 10 volte il contenuto radioattivo delle sue prede arrivando a livelli di radioattività sempre più alti (tecnicamente si definiscono magnificati) nei grandi predatori.

Si tratta quindi di un possibile dramma annunciato con conseguenze che ancora non riusciamo a prevedere per la vita marina. Ma ci sono altri due elementi che ci devono preoccupare. Il primo è che i pescatori del Pacifico potranno raccogliere nelle loro reti pesci contaminati e quindi rendere radioattivi i piatti di chi li mangerà, anche perché, a scanso di equivoci, è bene chiarire che la radioattività non viene eliminata dalla cottura. E quindi potrebbero esserci conseguenze per la salute umana. Il secondo problema è che negli oceani tutto è connesso e le acque del Pacifico che lambiscono il Giappone dopo alcuni anni completano il giro del mondo, circumnavigando l’Africa, giungendo in Europa fino alle coste della Gran Bretagna e del Islanda ed entrano anche nel Mediterraneo dallo Stretto di Gibilterra. È vero che sarebbero sempre più diluite ma è altresì vero che sarebbero una fonte di contaminazione di cui non conosciamo ancora gli effetti. Allo stato attuale non c’è modo di garantire la sicurezza dell’ambiente e della vita marina se rilasciamo acqua delicato nel futuro del rapporto tra uomo e mare, poiché apre le porte a qualunque futura decisione analoga da parte di altri paesi che posseggono scorie nucleari. Un domani, Cina, Russia e chiunque altro paese con centrali nucleari potrebbe decidere di portare le proprie barre radioattive in mare aperto, magari nell’area dell’oceano al di fuori dei confini giuridici nazionali e abbandonarle lì. Una soluzione troppo facile ed economica per non approfittarne. Per questo serve un lavoro importante di diplomazia internazionale e l’Italia potrebbe giocare un ruolo importante in questo senso per evitare che gli oceani “senza leggi” del Pianeta, che sono circa il 50% mondo sommerso, diventino la pattumiera radioattiva delle grandi potenze. Alla faccia della transizione ecologica.

*Docente all’Università Politecnica delle Marche e presidente della Stazione zoologica-Istituto nazionale di biologia, ecologia e biotecnologie marine

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