A Fukushima dieci anni dopo l’incidente nucleare i problemi per l’ambiente e la salute dell’Uomo sono, ancora più che mai, attuali. Il governo Giapponese ha confermato che rilascerà nell’Oceano Pacifico l’acqua contaminata impiegata per raffreddare i reattori danneggiati dall’incidente nucleare. Lo ha comunicato il premier Yoshihide Suga, malgrado la preventiva alzata di scudi dell’opinione pubblica mondiale, dei movimenti ecologisti, oltre all’opposizione dell’industria della pesca e dei rappresentanti dell’agricoltura locale. Non meno forte la reazione della Cina e della Corea. Ma di cosa si tratta esattamente? La manutenzione della centrale di Fukushima Daiichi genera 140 tonnellate di acqua contaminata al giorno che gli impianti di bonifica non possono trattare per eliminare il trizio, l’isotopo radioattivo dell’idrogeno. Negli oltre mille serbatoi dell’impianto di Fukushima si sono accumulati 1,25 milioni di tonnellate di liquido radioattivo che verrà progressivamente rilasciato in mare. Secondo il gestore della centrale, la Tokyo Electric Power (Tepco), le cisterne raggiungeranno la massima capacità consentita entro l’estate del 2022. Lo scarico delle acque comincerà tra due anni e durerà un periodo indefinito, anche di molti anni. Tuttavia, questa diluizione non diminuirà il problema, al contrario rischia di trasformarlo in un inquinamento radioattivo di tipo cronico. Le reazioni internazionali alla notizia sono ovviamente contrarie. Il problema è che questa decisione del Giappone viola non solo il principio precauzionale di non rilasciare nell’ambiente sostanze potenzialmente dannose, ma anche le conoscenze scientifiche e il buonsenso. La ricerca marina insegna che ogni sostanza rilasciata in mare anche allo stato disciolto viene incorporata nei minuscoli organismi del plancton, in particolare nella componente vegetale, il fitoplancton, che produce circa il 50% dell’ossigeno che respiriamo. Quello che viene incorporato in questi organismi entra nella rete trofica, poiché il fitoplancton viene mangiato dagli erbivori marini come i piccoli crostacei dello zooplancton e poi dalle larve dei pesci e così via dai pesci piccoli a quelli grandi, per arrivare ai grandi predatori oceanici come il tonno e gli squali. In questo processo il rischio di radioattività accumulata dagli organismi si amplifica, perché ogni predatore potrebbe accumula anche 10 volte il contenuto radioattivo delle sue prede arrivando a livelli di radioattività sempre più alti (tecnicamente si definiscono magnificati) nei grandi predatori.
*Docente all’Università Politecnica delle Marche e presidente della Stazione zoologica-Istituto nazionale di biologia, ecologia e biotecnologie marine