Lo stop ai motori termici e l’inerzia alla transizione

Lo stop ai motori termici e l’inerzia alla transizione

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 22 Febbraio 2023, 06:20

Ha suscitato reazioni generalmente negative e in qualche caso allarmate la recente decisione del Parlamento europeo che ha definitivamente approvato l’accordo sul taglio delle emissioni di CO2 per auto e veicoli commerciali leggeri, che comporterebbe di fatto lo stop alla vendita dei veicoli a motore termico, alimentati a benzina o a diesel, a partire dal 2035. I timori sono fondati poiché si stima che il passaggio alla trazione elettrica comporterà nella UE una riduzione di posti di lavoro lungo tutta la filiera dell’auto stimata fra le 500 mila e le 600 mila unità; una perdita che sarà solo in parte compensata dai nuovi posti di lavoro nelle tecnologie green. Come succede sempre quando si considerano gli andamenti di specifici settori o filiere, gli impatti non sono omogenei nei territori e possono anche configurare segni opposti. La reazione italiana deriva dal fatto che nel nostro paese la filiera dell’auto ha un peso considerevole ed è attestata in prevalenza sulle motorizzazioni tradizionali. Le regioni italiane con una significativa presenza di occupazione nella filiera dell’auto sono diverse: Piemonte, Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto, Toscana, Umbria, Abruzzo, Molise, Basilicata. Naturalmente il Parlamento e la commissione Ue sono consapevoli del potenziale impatto occupazionale dell’abbandono delle motorizzazioni tradizionali. Per questo sono previste misure compensative e una clausola di revisione in base alla quale nel 2026 la Commissione riesaminerà l’impatto del regolamento e considererà la possibilità di rivederne gli obiettivi, valutando anche la possibilità di mantenere motori ibridi o che utilizzano ecocarburanti. Seppure giustificata dal potenziale impatto negativo sull’occupazione e sull’industria nazionale, l’immediata e concorde reazione negativa registrata nel nostro paese è emblematica di un diffuso atteggiamento di resistenza nei confronti della transizione digitale ed energetica e, più in generale, verso il cambiamento tecnologico. A contribuire a questo atteggiamento è la sensazione di sorpresa con la quale vengo spesso accolti i cambiamenti. Nel caso della decisione del Parlamento europeo si tratta dell’approvazione in via definitiva di provvedimenti che erano già stati definiti e approvati nell’autunno scorso, e i cui obiettivi erano stati concordati dalla Commissione, dal Consiglio e dal Parlamento fin dal 2019. Malgrado ciò, anche in questo caso si ha la sensazione di dover rispondere ad un’emergenza piuttosto che ad un processo che va affrontato in ottica di lungo periodo. La seconda questione è l’atteggiamento di generale avversione al cambiamento; di cui si mettono quasi sempre in evidenza le conseguenze negative sullo status quo e quasi mai le potenzialità in termini di nuove opportunità. Viviamo in un mondo nel quale l’innovazione è diventata la normalità e i cambiamenti, anche radicali, sono destinati ad accelerare e ad interessare tutti gli ambiti della nostra vita. Persistere in un atteggiamento difensivo ci porta a vedere il cambiamento e l’innovazione come fonte di problemi piuttosto che di opportunità. Anche nelle scelte di politica industriale. Con riferimento alla decisione del Parlamento europeo si è lamentato il fatto che il passaggio all’auto elettrica oltre che mettere a rischio migliaia di occupati nella Ue è destinato ad avvantaggiare paesi che sono diventati dominanti nello sviluppo di alcune tecnologie chiave per la transizione digitale e ecologica: la Cina in primo luogo. Dovremo chiederci, a tale riguardo, come mai si è creata questa situazione e se continua ad essere utile una politica industriale orientata a sostenere le industrie esistenti piuttosto che, come hanno fatto in Cina e in altri paesi, a favorire la crescita di settori strategici per la transizione digitale e ecologica. La Ue ha finalmente preso coscienza di tale situazione e sta orientando sempre più in questa direzione le scelte di politica industriale. È tempo di cambiare atteggiamento anche nel nostro paese e iniziare a considerare il cambiamento come fonte di opportunità e non solo di problemi. Lavorando su obiettivi di lungo periodo e non in un’ottica difensiva e di continua rincorsa alle emergenze.

*Docente di Economia alla Politecnica delle Marche e coordinatore della Fondazione Merloni

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