Come non affrontare una crisi. La JP Industries è al capolinea

Come non affrontare una crisi. La JP Industries è al capolinea

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 5 Agosto 2020, 11:14
È notizia della scorsa settimana il cambio di nome e la messa in liquidazione della JP Industries di Fabriano, l’impresa che nel dicembre 2011 aveva rilevato il settore elettrodomestici della ex Antonio Merloni, assumendo 700 dipendenti. Da allora la società non ha mai operato con continuità e i dipendenti sono stati sostenuti dalla cassa integrazione. Ad oggi si sono superati i dieci anni di utilizzo degli ammortizzatori sociali, avviati con la gestione straordinaria della ex Antonio Merloni nell’ottobre 2008. La vicenda della JP Industries e del processo di ristrutturazione della ex Antonio Merloni merita qualche ulteriore riflessione. Non solo per la rilevanza del caso ma anche perché è emblematico del modo con il quale sono affrontate le crisi aziendali nel nostro paese. Argomento quanto mai attuale poiché è probabile che la contrazione del Pil nel 2020 porterà ad un moltiplicarsi di tali situazioni. Gli strumenti con i quali sono affrontate queste crisi hanno l’obiettivo preminente di assicurare la continuità aziendale e la salvaguardia dei posti di lavoro. Obiettivo senz’altro corretto quando la crisi è di natura congiunturale o deriva da eventi straordinari. Impossibile da perseguire quanto la crisi ha carattere strutturale: o per la particolare situazione dell’impresa o per l’evoluzione dei mercati in cui opera. In questi casi la salvaguardia dei lavoratori, che deve essere il primo obiettivo, non si ottiene cercando di congelarne a tempo indefinito la situazione pregressa ma favorendo azioni di formazione, riqualificazione e collocamento in altre attività. Nel caso della ex Antonio Merloni la situazione dell’impresa e dei relativi mercati, come a suo tempo chiaramente descritta dalla relazione dei commissari straordinari, non sembrava prefigurare molte possibilità per il ramo del bianco. Il settore aveva sperimentato nel nostro paese un continuo calo dei livelli produttivi e della redditività già dagli inizi del 2000. In alcuni comparti il calo era stato drammatico: la produzione di frigoriferi ha registrato un crollo dei volumi produttivi da 7,5 milioni di pezzi nel 2002 a 4 milioni nel 2007. Andamenti simili, seppure di diversa intensità, si erano registrati anche negli altri comparti. Il mercato europeo era da tempo maturo (cioè stabile nei volumi) ed era sempre più intensa la concorrenza dei produttori asiatici e dell’est Europa. Reggevano i prodotti a più alto contenuto di innovazione. Non era questo il posizionamento della Antonio Merloni per la quale i commissari straordinari avevano messo in luce le carenze nella ricerca e sviluppo e negli investimenti commerciali. Per poter occupare in modo profittevole i 700 dipendenti e gli stabilimenti ceduti alla JP Industries sarebbero stati necessari investimenti che erano al di fuori della portata della nuova società. La JP Industries ha acquisito il settore del bianco della ex Antonio Merloni per 13 milioni di Euro, dichiarando di voler avviare una produzione di elettrodomestici di alta gamma. Secondo i dati riportati dagli stessi commissari straordinari le vendite medie per dipendente dei principali player del settore erano pari a circa 200mila euro. Questo significa che per occupare profittevolmente i 700 dipendenti la JP Industries avrebbe dovuto sviluppare un fatturato annuo di 140 milioni di euro, con un impegno di capitale all’incirca simile; se non maggiore, date le necessità di aggiornamento dei prodotti e di penetrazione di nuovi mercati. Si trattava di investimenti palesemente eccedenti la capacità finanziaria della nuova società e che forse nessun investitore avrebbe ragionevolmente preso in considerazione. Si è quindi optato per una soluzione che fin dall’inizio era una non soluzione; trascinata per quasi un decennio. L’accelerazione dell’innovazione tecnologica e dell’evoluzione dei mercati impongono di cambiare atteggiamento nell’affrontare le crisi aziendali; privilegiando la riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori piuttosto che la salvaguardia dei posti di lavoro. Una salvaguardia che è in molti casi impossibile da ottenere e che alla fine impone costi elevati alla collettività e costi umani e sociali ai lavoratori che si vorrebbe tutelare. 

*Docente di Economia dell’Università Politecnica delle Marche
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