Colmare il ritardo nei trasporti e investire di più nell’innovazione

Colmare il ritardo nei trasporti e investire di più nell’innovazione

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 1 Febbraio 2023, 11:07

La scorsa settimana vi sono stati su questo giornale diversi interventi relativi all’economia regionale, a partire da quelli di martedì e mercoledì sull’utilizzo (o mancato utilizzo) dei fondi europei della programmazione 2014-2020, passando per le conseguenze del crollo di Banca Marche, per finire con il preoccupato rapporto sull’economia regionale del centro sudi della CNA e di quelli ancor più preoccupanti della CGIA e della UIL sull’esodo degli under 40.

La domanda di lavoro di qualità è uno dei principali indicatori dello sviluppo di un territorio e il fatto che persone in età da lavoro, molte delle quali con livelli di istruzione e qualificazione elevati, decidono di lasciare la regione è un indice della carenza di opportunità di lavoro di qualità. Se sulla diagnosi dei problemi dell’economia regionale vi è sufficiente consenso, più controverse si presentano le proposte sulla prognosi e sulle terapie da adottare. In realtà, su alcuni aspetti vi è un generale consenso. Il primo è quello della necessità di colmare il ritardo nelle infrastrutture di trasporto. Dai collegamenti ferroviari verso Roma e Milano, a quelli aerei versi i principali hub nazionali e internazionali, alla terza corsia autostradale verso il sud della regione, al miglioramento dei collegamenti interni. Tutti con elevato grado di priorità e urgenza. Il secondo ambito sul quale sembra esservi generale consenso riguarda la necessità di elevare la capacità innovativa del sistema, in particolare il sistema manifatturiero. Su questo versante però, le analisi e le proposte si presentano più controverse.

Il rapporto del centro studi della CNA sottolinea il fatto che le Marche figurano ben al di sotto della media nazionale nella percentuale di spesa in ricerca e sviluppo rispetto al PIL e nella quota di occupati impegnati nella ricerca. Il ritardo regionale in questo ambito non è però nella parte pubblica (grazie alla presenza di quattro atenei) ma soprattutto nella spesa privata, cioè quella sostenuta dalle imprese. La ragione principale di questo gap sta nelle caratteristiche strutturali del sistema manifatturiero regionale in termini di settori di attività e dimensioni d’impresa. I settori prevalenti nella regione, come il sistema moda, il mobile o l’alimentare, sono fra quelli con la più bassa propensione alla spesa in ricerca e sviluppo. E questa propensione è ancora più bassa nelle imprese di piccola e piccolissima dimensione, che costituiscono gran parte del tessuto produttivo regionale. In questi settori e dimensioni d’impresa prevale un modello di innovazione basato sul learning by doing o sulle interazioni con clienti e fornitori piuttosto che sull’investimento in ricerca e sviluppo. Un modello che rende problematica e poco efficace anche la relazione con le strutture di ricerca pubbliche come le università. Questo è alla base del dilemma delle politiche industriali: se continuare a sostenere la capacità innovativa dei settori e delle imprese esistenti, assecondandone il modello di innovazione; oppure puntare alla diversificazione del sistema produttivo verso settori a più alto contenuto di tecnologia, i quali fondano la capacità innovativa e il vantaggio competitivo sull’investimento in ricerca e sviluppo. Nel primo caso si rischia di sostenere attività che non saranno comunque in grado di mantenersi competitive per la crescente concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro. Nel secondo caso si rischia di imboccare strade di diversificazione nelle quali il sistema regionale potrebbe non riuscire a consolidare una posizione competitiva in ambito internazionale. Molte regioni, e le Marche non fanno eccezione, cercano di agire su entrambi i fronti. Da una parte raccogliendo le continue e crescenti richieste di sostegno da parte delle imprese e dei settori esistenti e dall’altro, seppure con maggiore timidezza, puntando a sostenere l’emergere di nuovi cluster di imprese operanti in settori a più alto contenuto di conoscenza. Sembra una scelta di buon senso anche se, come si studia nei manuali di strategia, la rinuncia a scegliere una chiara direzione di marcia rischia di lasciarci in mezzo al guado; cioè di non ottenere nessun dei due risultati attesi.

*Docente di Economia alla Politecnica delle Marche e coordinatore Fondazione Merloni

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