Il paradossale bisogno sociale di autenticità

Il paradossale bisogno sociale di autenticità

di Rossano Buccioni
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Martedì 24 Gennaio 2023, 06:05

Ha ancora senso parlare di vita autentica, quando la nostra esistenza è spesso schiacciata dall’anonimo vivere in terza persona, seguendo il “si” impersonale che sta in luogo dell’altro generalizzato, una ingombrante logica omogeneizzante di fronte alla quale siamo chiamati a regolare le nostre condotte ed a costruire i nostri punti di riferimento? L’altro generalizzato si separa dall’altro significativo (strutture profonde della relazionalità) e dunque i modelli esterni che dettano le regole di ogni ricompensa simbolica si scindono dal tessuto di interazioni con cui la costruzione sociale della realtà ha modulato i progressivi incrementi di complessità e differenziazione. Se ego pensa sé stesso a partire dal mantra della propria autorealizzazione, anche il linguaggio di alter diventa chiacchiera e cede alla ridondanza fino a precipitare l’ uomo senza qualità nell’assenza di progetto, nella negazione del rimosso e nella deiezione, una silente riduzione della vita al livello di realtà delle cose.

L’esistenza autentica dovrebbe caratterizzarsi per la consapevolezza angosciante che “la morte sovrasta l’esserci” (M. Heidegger), permettendoci di prendere coscienza della nostra finitudine e di rendere finalmente autentiche le nostre traiettorie di vita. Però nella sociologia del quotidiano le cose stanno diversamente. La società dell’informazione, pur aprendo l’uomo al mondo dell’interconnessione conoscitiva planetaria, lo dirige alla focalizzazione breve su contesti e circostanze limitati, che lo distraggono dal senso della vita nel continuo processo di trascendimento del presente, necessario per rimanere al passo con tempi non più umani, data la debolezza degli attuali sistemi di significato.

Questa vita è ben distante dall’esistenza autentica heideggeriana, e ciò fa si che il desiderio di autenticità pervada ogni ambito della società, dai bisogni più basilari sino alla sfera del consenso politico. Nell’era del rischio e dell’incertezza, del sospettoso individualismo e dell’esperienzializzazione narcisistica, l’autenticità è diventata una moda con i consumatori che premiano i prodotti locali di nicchia e le filiere corte, mostrandosi sempre sensibili alle questioni della trasparenza e magari ignorando i condizionamenti dell’allevamento mediatico. In ogni caso restiamo legati alla società dei consumi che è forse l’unica società nella storia capace di differenziare le proprie strutture in base alla promessa della felicità in questa vita, anche se il sentimento della felicità, aumentando al crescere del reddito, in realtà si mostra indicatore di scarso spessore esistenziale.

Nella società liquida, dove il motto dell’individuo contemporaneo potrebbe essere “vado di corsa dunque esisto”, il bisogno di autenticità investe chiunque, dalle imprese all’offerta politica, dove ritorna il self brand dell’onestà incorruttibile, almeno nella costruzione della credibilità pubblica centrata su un mix instabile di propaganda e sagace utilizzazione delle suburre mediatiche.

La reputazione o gli scambi fra “persone vere” , intese come una messa in guardia dal falso e dal simulacro nell’epoca della post-verità, diventano dunque una caratteristica propria dell’uomo contemporaneo, che cerca di essere sé stesso mantenendosi saldamente al cuore di dispositivi sociali che lo riducono al contrario di quel che egli crede.

Illudersi è ancora un’ottima profilassi.

Certamente restano inalterati gli orizzonti di improbabilità che schiacciano su esperienze di piccolo cabotaggio la ricerca dell’autentico, immersi come siamo nei canoni dell’impronta digitale, nella dittatura della felicità (Happycracy), nelle deformazioni relazionali del narcisismo esteso, nelle perenni allucinazioni del “turbo-individualismo”, cercando di mostrarci sempre all’altezza della velocizzazione dei ritmi di vita che necessita di una dimensione sociale regolata sull’inessenzialità dell’altro. Il culto dell’essere autentici è dunque l’altra faccia della medaglia di una cultura debitrice delle suggestioni della vita d’artista, insofferente ad ogni vincolo o senso del limite e ad ogni costruzione dialettica dell’alterità. Se essere sè stessi diventa un diritto universale del soggetto, la stessa intimità può mutarsi in estimità, con le difese sociali del ruolo e dell’identità travolte da una inedita ossessione iper-autentica.

Assai opportunamente il sociologo Gilles Lipovetsky afferma che ci troviamo di fronte ad “una riconfigurazione integrale del regime di verità nei confronti di noi stessi”, considerando che viviamo in un’epoca in cui gran parte delle antiche riserve simboliche - come le rappresentazioni della differenza fra maschile e femminile, dei rapporti inter-generazionali o delle stesse minoranze sessuali – perdono il proprio potenziale rappresentativo. Se il fenomeno consumistico si potrebbe interpretare come orizzonte della frustrazione, con una maggiore felicità corrispondente ad un facilitato accesso alle merci, è anche vero che il consumo diffuso verso il quale spinge il marketing uncinante è negato a quelle masse di consumatori contemporaneamente esposti al potere della marca ed alla negazione della realtà operata all’interno dell’impronta digitale della nostra cultura. Il mondo analogico si satura di merci e quello digitale di illusioni, mentre le classi agiate sfuggono alla coazione acquisitiva esorcizzandola nel lusso dell’economia dell’esperienza.

Le masse, spinte dalla divorazione consumeristica, inseguono una civiltà del desiderio edificata su bisogni indotti della dittatura dell’inessenziale con il miraggio dell’esistenza autentica che rimane ostaggio del trionfante utilitarismo e narcisismo massificato.

*sociologo, docente all’Istituto Teologico Marchigiano

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