Quelle infinite sfumature della crisi dell’Occidente

Quelle infinite sfumature della crisi dell’Occidente

di Rossano Buccioni
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Martedì 24 Maggio 2022, 10:10

Le riflessioni sul disagio e sulla devianza giovanile stanno assumendo un carattere marcatamente interdisciplinare, fondendosi con l’osservazione sociologica che prende in esame le traiettorie delle trasformazioni sociali in atto. Spesso risultano assorbite nel tema del c.d. “declino dell’Occidente”, da alcuni sostanzialmente ricondotto ai tanti – forse troppi - fraintendimenti della libertà individuale. L’individuo è riconosciuto nella sua dignità e libertà di autodeterminarsi.

Questa libertà si scontra con la paura che suscita il concetto, dato che risulta sempre più difficile coniugare la libertà del volere con la libertà sociale e con una idea di responsabilità “morale-personale” (G. Piana). Il mercato ha costruito una gigantesca liberazione di massa, ma l’individuo non “sente” prima del mercato, al massimo vive un “pre-sentimento”, al punto che ogni azione individuale è prevista da una autoreferenza sistemica soffocante che si nutre di quantità (ritenuta erroneamente matrice di autentica concretezza). Sono logiche pure della società di mercato, da quando “il crollo del socialismo reale non ha più richiesto una legittimazione ideologica dell’economico come garanzia delle libertà democratiche” (S. Zamagni).

L’emancipazione acquisitiva statuita dalle merci distoglie l’oggetto dalla sua funzione originaria, quella di definire un mondo, ancorare il ricordo per stabilire in chiave evolutiva dei criteri differenziali (esseri umani da valutare in più o in meno rispetto ad altri esseri umani). L’individualismo possessivo predispone l’essere umano vocato al consumo alla sostituzione ruotinaria dell’esperienza, non in vista di una conferma da parte dell’esterno, ma di una continua ricapitolazione inneggiante alla implacabilità dell’esistente, alla sua rapace attestazione di legittimità. Questa attestazione si legge ovunque: nel ritmo di un brano musicale, nei cartelloni pubblicitari o nella fatigue di milioni di giovani costretti nell’eldorado noiosissimo della gamification. Noto alcuni giovani aggressivamente annoiati al un tavolo di un bar: sembrano sfiniti dall’assenza di attese, rimaneggiati e costantemente rimodulati su di un “possibile altrimenti” che si palesa già svuotato di ogni potenziale rivelativo. Abbozzano corsi di azione e pensieri rapsodici di un nulla costituente, dentro singolari e grottesche intermittenze.

Sembrano i primi difensori di ciò che li opprime. Non c’è scuola, sport, o immagine che tenga, non c’è vicenda personale o sogno, se non quello suggerito da un mondo inutilmente eguale a sè stesso, che tutti quei giovani sanno perfettamente di non poter modificare in niente, preferendo lo stordimento dell’alcol o delle sostanze all’ardua perimetrazione delle proprie potenzialità trasformative. I teorici del nuovo scontro di civiltà, quelli che accettano la sottrazione del concetto di “conquista” all’universo della tecno-scienza per restituirlo al cingolo militare, leggono il mondo mentale di questi giovani come un fiore del male, ed attraverso loro, risalgono alle radici marcescenti di una socializzazione impoverita, distolta da valori destinati a durare.

Commentando un romanzo della scrittrice Yoko Ogawa, il filosofo Byung-Chul Han sostiene che noi “al contrario della distopia immaginata dall’autrice giapponese, non viviamo in un regime totalitario dominato dalla polizia del pensiero che ci sottrae oggetti e ricordi. E’ piuttosto la nostra ebbrezza comunicativa a farli sparire. Le informazioni – dunque le non cose – si piazzano davanti alle cose facendole sbiadire”.

Quelli al tavolo sono ragazzi di un non-bar, in un non-mondo, con non-famiglie e non-scuole, dove domina il flusso imponente di informazione che, appena raggiunge un equilibrio, immediatamente lo supera per ricercarne uno nuovo, in modo altrettanto effimero. Nella distopia di Ogawa il mondo si svuota fino a scomparire del tutto, come negli occhi di quei ragazzi che abbozzano gesti parzialmente risucchiati dal flusso informativo dello smartphone, che attivano potenziali psico-affettivi (immediatamente neutralizzati dalla novità di uno schermo) o che agitano spettri emozionali, presto distolti dall’eccesso di possibili che rende velleitario ogni corso di azione. In che senso quei giovani farebbero parte di una cultura al tramonto? La loro è una cultura che si è emancipata dalle grandi narrazioni per adempiere ad una coincidenza tra democrazia e mercato e per sostenere dal lato degli oggetti una struttura di permanenza sociale.

Gli stessi oggetti però sono ormai generati per rendere obsoleta l’originaria capacità identificante del mercato e della società di cui quello rappresenta il sistema sociale di riferimento. Il dominio del mercato ci introduce nella “società post-fattuale dell’informazione” dove una notizia scaccia la precedente, con la comunicazione che sembra esser dominata da impulsi emozionali incandescenti, destinati a travolgere tutto, ma al prezzo di una chiara impermanenza. Si tratta di flussi di informazioni che “destabilizzano la vita. Tutto ciò che stabilizza la vita umana è impegnativo.

La fedeltà, i legami ed i vincoli sono prassi impegnative. Il degrado delle architetture temporali stabilizzanti, alle quali appartengono anche i riti, rende instabile la vita (…). Ci sarebbe bisogno di un’altra politica temporale” (B-C. Han). La decadenza dell’Occidente non sarebbe altro che una insostenibile limitazione delle capacità personali di venire a capo dell’odierno rapporto tutto/parte statuito dall’ipercomplessità? Gli sguardi di troppi giovani non ricercano futuro e non chiedono di essere convocati al cuore di una tensione, di un’epopea o di un conflitto. Volti resi invisibili dalla feroce inconsistenza dell’epoca che stiamo vivendo.

* Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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