Il senso del tempo di festa nell’epoca del disincanto

Il senso del tempo di festa nell’epoca del disincanto

di Rossano Buccioni
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Martedì 3 Gennaio 2023, 05:20

La festa si intreccia da sempre con il senso del tempo. Da un lato, la sua immaginaria sospensione della durata non vuol essere una vera abolizione, ma una consumazione del tempo perchè nella festa passato, presente e futuro si amalgamano con intensa inquietudine per produrre l’effetto desiderato: il richiamo persistente ad un tempo passato, la sottomissione al dettato imperioso della tradizione per poter instaurare un fondamento solido, quasi assoluto per il presente ed il futuro della collettività, confidando sul senso di continuità tra le generazioni per ricreare fiducia e senso di comunità.

Del resto un’epoca proiettata nel futuro come la nostra - modellata dal mutamento tecnologico permanente che rende obsoleti i saperi e svaluta incessantemente il passato - genera instabilità e paradossalmente seleziona e rende intangibili oggetti e riti un tempo garanti di un forte potenziale identificativo. Quanto più manipolabile diviene la storia, tanto più necessaria si fa l’instaurazione di un fondamento simbolico assoluto. Ora, la varietà di dimensioni esistenziali espresse da questi concetti - e le teorie ad essi associate - appaiono riconducibili a un nodo critico essenziale che possiamo identificare nell’imperante processo di razionalizzazione della modernità e nel conseguente disincanto del mondo che vi è connesso.

Questo tema, che attraversa l’intera opera di Max Weber – uno dei padri del pensiero sociologico - ci invita a riflettere sul crescente predominio, tipico nel momento moderno, delle logiche di efficientamento e produttività al culmine di una rappresentazione della realtà basata sulla fiducia nel fatto che le cose possano essere esclusivo dominio della ragione.

Se questa fiducia diviene la chiave del rapporto con il proprio tempo la condizione umana si esprimerà all’interno di un progressivo - quanto ovvio - disincanto del mondo, poiché gli uomini faranno a meno di ogni riferimento a spiegazioni e comportamenti metafisici e/o religiosi. In realtà i processi di formalizzazione e razionalizzazione che investono ogni forma dell’agire e del sentire moderni non significano di per se una crescente conoscenza e padronanza delle nostre condizioni di vita, ma influiscono sulla costruzione sociale della realtà che, in quanto tale, non può più chiamare in causa forze misteriose ed incomprensibili, realizzandosi in linea di principio sul discrimine tra immanenza e trascendenza, in un mondo che prevede il dominio sulle cose realizzato mediante un calcolo razionale fattosi senso comune.

Razionalizzazione e velocizzazione conducono al “disincantamento del mondo” con la scissione tra razionalità e valori, tra cultura e natura (che prosegue quella tra corpo e mente) tipica del moderno. Di fronte alla koinè del disincanto in molti hanno tentato un re-incantamento del mondo con approdi filosofici che riflettevano la consapevolezza della crisi della civiltà europea. Nella riflessione sul rapporto che intercorre tra uomo e Dio, la ricerca antropologica è contrassegnata da un antropocentrismo che porta con sé vistosi tratti di oggettivizzazione del mondo.

La modernità separa l’uomo - che diventa artefice del suo destino (homo faber) – dal mondo, ma ciò accade mediante il mondo e con vistose mutazioni del mondo. Tuttavia, la discrepanza tra uomo e mondo è frutto della separatezza più radicale tra l’autonomia dell’uomo e l’affermazione di Dio. Determinatasi con varie sfumature del moderno, l’autonomia dell’agire umano fatica a trovare un rinnovato rapporto con la realtà divina che finisce per arrivare sempre troppo tardi rispetto all’autonoma lettura umana del mondo. Non è un caso che nell’epoca moderna le scienze umane facciano il loro ingresso al plurale. Ciò denuncia l’incapacità del sapere dell’uomo di venire al capo del suo mistero da un punto di osservazione.

L’orientamento umanistico sembra ricondurre al centro l’uomo e la sua libertà di conoscere ed agire, proprio nel momento in cui la scienza introduce un protocollo del conoscere che si sgancia da ogni ipoteca metafisica. Questo dato espone la civiltà della tecnica anche ad inedite forme di perdita di valori aggreganti, venendo a mancare strutture che abilitano emotivamente alla continuità intergenerazionale. Si pensi per un momento ai giochi, ed al mondo sociale cui rinviavano. Oggi le camerette sono ingombre di giocattoli, ma i bambini giocano sempre meno. La scomparsa dei giochi di gruppo fa registrare una sorta di mutazione antropologica dei più piccoli, adultizzati anzitempo, che imparano presto ad agire come noi, diluendo lo spazio della meraviglia ed inaridendo quello dell’interiorizzazione. Anche se facile appannaggio del mercato, i giocattoli rimangono il principale banco di prova per superare l’innatismo egoistico dato che è intorno al loro utilizzo che i bambini comprendono la necessità della condivisione, imparando a declinare il soggettivo nel relazionale per superare il narcisismo di base.

Tuttavia il narcisismo e l’egoismo della prima infanzia, un tempo solo interpretabili alla luce di un processo trasformativo che doveva superarli, è come se subissero al tempo presente una specie di stabilizzazione comportamentale come orizzonti generali di senso nella società della velocizzazione e della mercificazione. Le merci diventano totem senza scandire nessun processo trasformativo che promuova un valore superiore a loro estraneo. Se il gioco è lo specchio fedele di una cultura, i bambini ci somigliano sempre di più anche nel giocare, in un mondo di continue interazioni senza valore, dove ognuno segue le suggestioni dell’obbligo a consumare esperienze, interconnesso ma solo, nella pericolosa oscillazione tra l’ansia e la noia tipica di chi poco deve imparare dalla conoscenza di sé.

* Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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