Servono Comuni più grandi per dare un futuro alle città

Servono Comuni più grandi per dare un futuro alle città

di Edoardo Danieli
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Sabato 14 Gennaio 2023, 06:20 - Ultimo aggiornamento: 17 Gennaio, 20:23

La città, come la viviamo ogni giorno, ha ancora un senso? A rispondere a Italo Calvino, viene da dire: no. Scriveva l’intellettuale e scrittore: “Di una città non godi le 7 o 77 torri, ma la risposta che dà a una tua domanda”. Di fronte alle domande di ogni giorno: vivo bene nel mio quartiere, ho spazi di socialità accessibili, ho connessioni che mi consentano di svolgere il mio lavoro nel modo più efficiente e al minor costo sociale possibile, ho connessioni che permettano alla mia cultura di crescere?

La pandemia ha sicuramente peggiorato la vita quotidiana, ma anche prima del 2020, a poche di queste domande un cittadino marchigiano avrebbe potuto rispondere di sì. Adesso, ancora meno. Basta leggere le cronache quotidiane del Corriere Adriatico per rendersi conto del disagio - reale, non inventato - della vita all’interno delle città. Al cambiare delle domande, mai così repentino come in questa epoca di trasformazione, non cambia, almeno da 200 anni, il modo di intendere della città, da quando una tribù decise di incardinarsi in un villaggio. Dalla necessità della piazza, a Creta, nel III millennio avanti Cristo, alla polis greca, fino alla città medievale, c’è sempre stato l’anelito di realizzare un piccolo ordinato microcosmo. Dalla piazza ai grandi assi viari delle case borghesi della città barocca fino all’urbanesimo della rivoluzione industriale: che da un lato porta alla costruzione delle grandi periferie né città né campagna; dall’altro, con la sua crisi, fa nascere l’urbanistica, scienza dell’organizzazione del territorio urbano all’interno di una riflessione sociale.

In ogni caso, la città ha sempre dato risposta a una funzione, cambiando nel momento in cui le domande (per dirla ancora con Calvino) mutavano. E adesso? A quali funzioni risponde la città tra passato snaturato delle sue funzioni, presente tra non luoghi determinati da rendita di posizione e grande distribuzione organizzata e futuro del tutto incerto? Si parla molto di rapporto tra Stato nazionale e sovranazionale; si parla molto di funzioni tra Stato centrale e Regioni, ma si parla molto poco di città. Eppure, c’è un’agenda urbana che discende dalla Ue in cui sostenibilità ambientale e coesione sociale sono obiettivi ripetuti come un mantra di cui si è forse perso il senso che andrebbe invece recuperato.

Nel nostro Paese, probabilmente a causa di un perverso modo di pensare nato ai tempi di Mani Pulite, si è persa una politica urbana, una strategia nazionale per le città.

Avviare un dibattito in questa direzione che produca non slogan ma linee guida, può essere un fattore strategico per le Marche. Proprio in questi giorni, su queste colonne, si sta approfondendo il tema della denatalità che abbinato a un numero abnorme di Comuni produce un risultato che rischia di vanificare gli ingenti investimenti che stanno piovendo sul territorio. Nei primi dieci mesi dell’anno passato la popolazione residente nelle Marche è scesa a 1.482.604 di abitanti suddivisi in 225 Comuni.

Quale politica e a quali costi può dare risultati con questa scala di grandezze? La revisione dei confini amministrativi diventa dunque un passo ineludibile che dalla carta - l’ultima previsione normativa è del 2014 e risale al ministro Delrio - deve arrivare a terra, come si dice ora, con la creazione di sistemi transcomunali. Le Marche, proprio per le loro particolarità, potrebbero essere un territorio ideale di sperimentazione. Comuni più grandi esistono già di fatto e pagano con la invivibilità il fatto di essere frammentati: Pesaro e Fano; l’hinterland di Ancona; Civitanova, Porto Sant’Elpidio e la bassa valle del Chienti; la campagna urbana del Fermano.

Particolare attenzione va rivolta alla montagna che merita una tutela speciale che eviti la concorrenza sleale e spietata degli altri territori. Una mappa del genere andrebbe costruita con grande attenzione e con evidente concertazione per evitare che la sovrapposizione di competenze possa generare altra confusione. Certo, servono domande da parte dei cittadini che non siano sempre le stesse: parcheggiare sotto casa, avere strade di collegamento tra paesi a quattro corsie, pensare che divertirsi sia urlare e vomitare nei vicoli dei centri storici e così via ma serve anche una classe dirigente che smetta i panni dell’appartenenza e si assuma la responsabilità di voler dare un futuro alle nostre città.

* Giornalista di Corriere Adriatico

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