«Davanti a noi si pone un bivio: da una parte la fraternità, che feconda di bene la comunità umana; dall’altra l’indifferenza, che insanguina il Mediterraneo. Ci troviamo di fronte a un bivio di civiltà. O la cultura dell’umanità e della fratellanza o la cultura dell’indifferenza: che ognuno si arrangi come può». Quanto affermato da Papa Francesco a Marsiglia ci proietta all’interno della 109esima Giornata del migrante e del rifugiato che si celebra oggi in tutto il mondo.
Già il titolo scelto dal Pontefice per il suo messaggio inquadra inequivocabilmente la questione: “Liberi di scegliere se migrare o restare”. Chi vede i migranti come nemici da cui difendersi allontanandoli o alzando muri non ha una visione corretta della storia. I confini non vanno posti al riparo dalle vittime di questo crudele traffico di esseri umani ma dai trafficanti di persone disperate. A essere contrastati in modo deciso e implacabile devono essere i «mercanti di carne umana» e coloro che trasformano l’Europa nel florido mercato di ogni attività criminale: dalla droga che entra a tonnellate allo sfruttamento della prostituzione coatta. I predatori del bene comune sono i tanti aguzzini che in Occidente organizzano e lucrano sul più turpe dei commerci: quello dei fragili. Perciò i Paesi di origine, transito e destinazione della tratta dovrebbero accordarsi e intensificare i loro sforzi per combattere i trafficanti e non le vittime. E invece in questi giorni si è persino sentito un sindaco dire che «per strada i migranti fanno paura».
Al contrario, come insegna il Santo Padre, i flussi migratori dei nostri giorni sono espressione di un fenomeno complesso e articolato, la cui comprensione «esige l’analisi attenta di tutti gli aspetti che caratterizzano le diverse tappe dell’esperienza migratoria: dalla partenza all’arrivo». Nessuno, infatti, emigra volontariamente. A determinare l’abbandono della propria terra sono indigenza estrema, guerre, catastrofi climatiche, persecuzioni. Non si lascia liberamente famiglia, patria, radici se non si è costretti da condizioni insostenibili. Chi lo fa è spinto dal bisogno e mette a rischio la vita in traversate atroci e spesso letali di deserti e mari.
Una tragedia individuale e collettiva che riecheggia sofferenze bibliche. È a causa di una grave carestia che Giacobbe, con tutta la sua famiglia, fu costretto a rifugiarsi in Egitto, dove suo figlio Giuseppe aveva assicurato loro la sopravvivenza.
L’Europa non è ancora riuscita a unirsi per affrontare il fenomeno migratorio e così lascia sole l’Italia e le altre Nazioni della parte meridionale del continente affacciate sul mare nostrum. Così paradossalmente siamo testimoni e complici di ciò che gli individui provenienti dai popoli africani e asiatici sono costretti a sopportare ogni istante: la solitudine terribile di chi diventa anche in Occidente oggetto di disprezzo, emarginazione, razzismo o indifferenza e anche avversione e odio.
Non è semplice aiutare, soccorrere e accogliere persone profondamente segnate da drammi, traumi e violenze. Il film “Io Capitano” di Matteo Garrone offre uno spaccato veritiero di uno straziante percorso ad alto rischio che non sempre finisce con un lieto fine. Accoglienza e integrazione sono due facce della stessa medaglia. «Sono un cittadino, non di Atene o della Grecia, ma del mondo», diceva il filosofo Socrate. Due millenni e mezzo dopo serve ancora ribadire che ad essere sacra è la vita umana e non i confini.
* Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII
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