I giovani, protagonisti negativi: non è solo questione di disagio

I giovani, protagonisti negativi: non è solo questione di disagio

di Rossano Buccioni
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Martedì 1 Marzo 2022, 10:05

Se la post-modernità aveva espresso l’idea di crisi delle grandi narrazioni (con la fine dei processi di interiorizzazione relativamente alle certezze della società tradizionale), ora assistiamo alla nascita delle grandi “narrazioni aggressive”, con inediti protagonisti al cuore dei dispositivi sociali di tipo performativo: i giovani. Un numero sempre crescente di adolescenti vive una condizione di forte disagio emotivo che disegna una reazione duplice quanto speculare: vi sono giovani che attaccano il proprio corpo tramite vissuti autolesivi, esprimendo una forte sofferenza in modo auto-diretto; poi vi sono altri giovani e giovanissimi che, pur esprimendo lo stesso doloroso disagio, necessitano di azioni violente dirette verso elementi esterni, che la precaria gestione delle proprie emozioni spinge a colpire.

Gli adulti spesso vogliono questi giovani solo felici e competenti, specchio fedele delle proprie capacità di lettura della società iper-differenziata basata sulla performance e sulla “rimozione della sofferenza”(Byung-Chul Han). Se l’individuo giovane deve poter essere incluso in ogni sottosistema funzionale, la sua inedita collocazione non dovrà essere interpretata come realizzazione di diritti o rispetto della dignità della persona, ma come corrispondenza puntiforme alle logiche factual di specifici sistemi di funzione i quali potranno decidere anche una sua altrettanto radicale esclusione, dato che «oggi assistiamo ad una caduta dello sguardo (incapacità di vedere sé nell’altro) e ad una incapacità di ascoltare la parola ed il pensiero dell’altro (il suo racconto) perché sembra sempre più difficile pensare l’altro come soggetto e non solo oggetto di giudizio e di esperienza» (M. Revelli).

La scomparsa di un orizzonte di significato integrante la dinamica sociale e l’incremento delle aree di ibridazione tra vivente e non vivente, fa si che la trasformazione in senso post-human del rapporto individuo/società determini condizioni che impediscono di tracciare una netta linea di separazione tra uomini e macchine e tra umano ed artificiale, con gli strumenti della grande mutazione che sul versante uomo/tecnica sono: biotecnologie di progetto, neuroscienze, machine learning, cyborg; mentre sul versante della incerta separazione tra umano e resto del vivente sono: etologia cognitiva, zoosemiotica, animal thinking, ecc.

Se la produzione di un mondo fittizio e simulato favorisce l’indistinzione tra virtuale e reale, il “sociale umano” viene distorto, moltiplicando i problemi di selezione comunicativa e di legittimazione identitaria. La transizione al post-umano come fatto culturale incarna l’ambivalenza dell’attuale rapporto individuo/società, investito da processi di disumanizzazione tecnologica, ma anche da tentativi di riumanizzazione naturalistica. In tal senso appaiono significative le opinioni del filosofo Roberto Esposito che legge la costruzione di una “faticosa ingegneria sociale” alla luce dei rischi del suo potenziale smantellamento, con le trasformazioni dell’umano che emergono in molte sfere della vita sociale – disagio giovanile compreso – interessate da forti tensioni tra processi di crescente differenziazione e di “ri-naturalizzazione di quelle istituzioni che hanno spinto l’uomo al di la della sua dimensione naturale”.

Tali tensioni modificano i modelli umani ancora espressi dalle improbabili offerte identitarie del tempo presente, consentendo l’assunzione di comportamenti potenzialmente borderline come fisiologici, assecondando una logica “uncorrect” latente a diversi livelli del sistema sociale. In tali condizioni, il contenitore concettuale “disagio”, emendato della sua connotazione psicologizzante, si muta in categoria analitica tout court tipica della debole co-definizione di sistema psichico e sistema sociale fortemente differenziato.

Allora, nella “società/mondo” non vivrà un individuo in crisi, ma un inedito individuo “in quanto crisi”. Crisi di che cosa? Di quei meccanismi co-generativi di sociale ed umano, non solo entrati in una dimensione di reciproca indifferenza, ma che disegnano una realtà sociale emergente e fortemente performativa, capace di forzare l’umano all’interno di dinamiche esasperate di ordine prestazionale. Per cifrare questo reciproco allontanamento tra società/mondo e condizione umana si inizia ad utilizzare il concetto di “resilienza”, emblematico di una pervasiva modalità di riferirsi al paradigma della scissione umano/sociale. E’ resiliente solo chi è capace di resistere perché l’esterno entra in rapporto con la storia dell’individuo solo dal lato dell’urto prestazionale richiesto, della competenza imposta, della codifica sociale dello specifico biologico in vista di una continuous socialization. Se la nuda vita entra in una logica di resilienza relativamente al contesto sociale, il rapporto individuo/società risulterà espressione inerziale dell’alfabeto additivo, con il “sé-bios” (G. Piazzi) che sarà sempre in ritardo sul sé sociale cui deve necessariamente corrispondere ricercando la coerenza tra tra tempi sociali e tempi psichici.

I giovani modaioli, scippatori ed accoltellatori seriali, ingioiellate maschere di una egolatria grottesca e disperata, sono la chiave di accesso ad un “sociale” che ormai può esistere solo come crisi. Non è ripristinando vecchie modalità di connessione tra umano e sociale che si potrà pensare di restituire questi adolescenti ad una dimensione esistenziale normale, ispirata da orizzonti normativi destinati a strutturare in modo permanente il sistema di personalità perché nella società funzionalmente differenziata ormai si da sistema di personalità nel senso di una mancanza di strutturazione psico-biologica permanente.

* Sociologo della devianza e del mutamento sociale

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