Il fenomeno venture capital e il fattore chiave del territorio

Il fenomeno venture capital e il fattore chiave del territorio

di Donato Iacobucci
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Mercoledì 1 Dicembre 2021, 06:00

L’ultimo numero del settimanale The Economist ha dedicato la copertina alla rapida crescita degli investimenti di venture capital osservata nell’ultimo anno. I venture capitalist gestiscono fondi raccolti da privati o da investitori istituzionali con l’obiettivo di finanziare nuove iniziative imprenditoriali (start-up) ad alto potenziale di crescita. I venture capitalist sanno che buona parte delle nuove iniziative è destinata al fallimento; è sufficiente però che qualcuna abbia successo per assicurare un ritorno elevato all’intero portafoglio. I primi fondi di venture capital hanno iniziato ad operare negli USA negli anni ’60 del secolo scorso e da allora si sono espansi continuamente. Prima negli USA e successivamente in Europa e in Asia.

Lo sviluppo è stato trainato in primo luogo dall’avvento e dalla diffusione dell’informatica e di internet. Tutte le società che oggi dominano questi mercati – Apple, Microsoft, Google, Amazon, Facebook, Airbnb, Uber, ecc. – sono decollate e cresciute grazie al sostegno dei fondi di venture capital. Fino ad un decennio fa l’industria del venture capital era dominata dagli USA. Nel 2002 oltre l’80% del valore degli investimenti era in questo paese. La situazione è migliorata negli ultimi anni ma la distanza con gli USA è ancora notevole. Nel 2019, prima della pandemia, l’OECD stimava il valore degli investimenti in venture capital negli USA a 136 miliardi di dollari. Per lo stesso anno la stima era di 2,4 miliardi in Germania e 2,1 in Francia. In Italia erano 260 milioni, cioè poco più di un decimo di quelli della Germania che erano comunque meno del 2% di quelli negli USA. L’attività di venture capital è molto concentrata sul territorio. I venture capitalist non forniscono solo risorse finanziarie alle start-up ma consulenza strategica e contatti, affiancando e seguendo l’imprenditore nelle principali scelte. Per questo la vicinanza geografica conta e spiega la forte concentrazione territoriale degli operatori.

Negli USA sono in gran parte localizzati nella Silicon Valley, a Boston e New York. In Italia vi è un’elevata concentrazione su Milano. Lo scarso sviluppo del venture capital in Italia è spiegato non solo da fattori di offerta ma anche da fattori di domanda.

I nostri imprenditori sono tradizionalmente restii a cedere quote di capitale e sono generalmente più avversi al rischio e meno orientati alla crescita. Nel corso del 2021 si sta assistendo ad un vero e proprio boom degli investimenti in venture capital, che interessa non solo gli USA ma anche l’Europa. A spiegare questo boom sono innanzitutto fattori dal lato dell’offerta: la grande liquidità disponibile sul mercato, associata ai bassi tassi di rendimento dei titoli a reddito fisso, incentiva gli investitori a cercare alternative di investimento ad alto potenziale di rendimento.

Dal lato della domanda le esigenze di innovazione indotte dalla transizione digitale ed ecologica stanno moltiplicando le iniziative imprenditoriali da elevato tasso di innovazione ed elevato potenzialità di crescita. Le Marche, come sappiamo, sono fra le regioni con il maggior numero di start-up innovative rispetto alla popolazione. Il dato non stupisce se si tiene conto della tradizionale vivacità imprenditoriale della nostra regione e dell’attivismo mostrato negli ultimi anni dalle università regionali, dalle associazioni imprenditoriali e da altri soggetti pubblici e privati nel promuovere la nascita di start-up. L’impatto delle start-up in termini di creazione di nuova occupazione e di diversificazione verso produzioni a maggior contenuto di tecnologia dipende però non tanto dal loro numero quanto dal fatto che alcune di esse, anche se poche, riescano ad attuare rilevanti processi di crescita. Per questo la disponibilità di fondi di venture capital è fondamentale. Una disponibilità che deve essere presente a livello territoriale per le ragioni prima ricordate. Il rischio per le regioni periferiche è di non riuscire ad attrarre questi operatori e di perdere talenti imprenditoriali che vanno a sviluppare i loro progetti altrove. C’è da augurarsi che la rapida crescita del settore prevista per i prossimi anni arrivi a toccare anche la nostra regione.

* Docente di Economia alla Politecnica delle Marche  e coordinatore  Fondazione Merloni 

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