Le morti anonime dell’emergenza sanitaria nella crisi del commiato e del ricordo condiviso

Le morti anonime dell’emergenza sanitaria nella crisi del commiato e del ricordo condiviso

di Rossano Buccioni
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Martedì 12 Maggio 2020, 19:07
Il Corriere Adriatico di martedì scorso, rendeva noto che una folla di persone, presentandosi ai cancelli del cimitero di San Benedetto del Tronto per far visita ai parenti defunti, contravveniva pericolosamente alle regole sul distanziamento sociale. Per gestire al meglio gli ingressi sono dovuti intervenire i vigli urbani e sono stati distribuiti dei tagliandi numerati che hanno agevolato il percorso dei visitatori. Che la morte sia un aspetto centrale per qualsiasi visione della vita è noto da sempre e quanto sia prezioso celebrare la sacralità di questo passaggio esistenziale è apparso assai evidente nella tragica “gran moria” del Covid-19. La morte spezza l’ordine prestabilito e la comunità aiuta a superare il senso di afflizione dei superstiti poiché la prossimità consente di utilizzare “presenze e parole contro la morte”.

Sono costruzioni sociali di senso che la pandemia ha sospeso. Prima che scoppiasse l’emergenza sanitaria, una grande distanza psichica ci separava dal tema del “trionfo della morte” che - a differenza di epoche precedenti - ci turba in profondità perché apparteniamo ad una cultura della rimozione del morire. Prima dello spaventoso incremento dei decessi per Covid-19 si assisteva alle conseguenze dei processi di banalizzazione e rimozione del morire, declinati sul piano individuale e resi discreti all’interno di fenomeni sociali consolidati: la personalizzazione e l’ospedalizzazione del trapasso.

Un altro elemento importante è la sorveglianza linguistica che abbiamo elevato per impedire allo scacco rappresentato dalla fine della vita di proiettarsi sul senso comune, con la tendenza a non usare direttamente il termine “morte”, sostituito spesso da perifrasi ed eufemismi: si sente parlare di persone che “se ne vanno” o che “passano a miglior vita”. La cultura odierna, sembra divenuta incapace di dare risposte significative alle perenni domande dell’essere umano e ci si limita ad occultare il fatto della morte, riproducendo in forme nuove un blocco collettivo verso l’ignoto. Le persone con il biglietto in mano all’ingresso del cimitero di San Benedetto, vanno dunque ad omaggiare personalmente valori rimossi socialmente, facendo il loro dovere dentro una dinamica coerente di soggettivazione del ricordo. Nella società in cui viviamo prosegue una tendenza che ha caratterizzato la modernità, cioè allontanare i morti dai luoghi dei vivi: dopo la distanza rispetto all’abitato imposta all’ubicazione del cimitero dalle leggi napoleoniche, ora sembra indebolito anche il legame sociale e culturale con i trapassati e la crisi epidemica in atto ha approfondito questi elementi di criticità.

Lo scandalo del ritorno ad una mortalità dominata dal dato della quantità – che priva il morire dell’elemento della soggettivazione e della personalizzazione come sintesi biografica – accade in contesti di rimozione culturale e di scarsa propensione sociale alla elaborazione del lutto, lavoro tutto individuale, racchiuso in luoghi di gestione di un dolore istituzionalizzato quanto anonimo. La morte appare il “nuovo tabù” della società, il grande rimosso dell’immaginario collettivo. E allora il suo mistero grava sulla condizione umana, riproponendosi, lancinante, ai sopravvissuti. Lo psicologo James Hillman scrisse che il malessere di fondo della nostra cultura nasce dal rifiuto della morte (…), rifiuto inteso come rimozione ed evasione. Con “rimozione” è da intendersi un processo dello psichismo umano, che agisce nella direzione inversa alla presa di coscienza. Ciò che irrompe nella vita di ognuno in modo sconvolgente in qualche modo si associa al ritorno del rimosso: qualcosa che avevamo deciso di tenere fuori dal nostro quadro psichico – legittimati dalla struttura sociale in cui simo inseriti - irrompe nuovamente e con violenza nel quotidiano, spezzando un equilibrio che credevamo acquisito. Le vicende delle scorse settimane incrinano le logiche di rimozione sociale del morire, determinando la necessità di un suo necessario riposizionamento nell’inconscio collettivo. Per realizzare questo scopo sarà necessario rielaborare il senso della perdita, pur nel gravame di uno scandaloso dominio dell’elemento quantitativo. Se il XX secolo si lasciò definitivamente alle spalle la concezione della morte come inaccettabile interruzione di legami affettivi unici, già prendeva forma l’immagine di una “morte proibita”, descrivibile come un progressivo allontanamento del pensiero della morte fino alla sua completa rimozione nelle logiche culturali secolarizzate.

Si tratta di una fase in cui ebbe a strutturarsi un trauma maggiore rispetto al passato, perché il processo del morire risultava ormai affidato alle strutture ospedaliere e non più all’attenzione dei familiari. Queste dinamiche vanno interpretate alla luce dello sgretolarsi di quelle strutture parentali e di gruppo che costituivano la rete di supporto nell’assistenza dei superstiti. Le persone che il virus ha decimato nella solitudine, si sono viste negare le forme di ritualità funebre tipiche della nostra epoca, con la biografia del singolo sottratta ad un commiato che cercava di ri-narrare una vita dentro l’interazione del ricordo condiviso. La grande moria pandemica ha messo in crisi modalità espressive centrali in tali processi, rendendo ardua la sottrazione del caro estinto alle logiche di quella che lo storico Philippe Ariès, definì “morte delegata” e il pedagogista Raffaele Mantegazza “morte amministrata”, inserite entrambe in un vero e proprio ciclo di consumo, dove il cordoglio deve inchinarsi alla sbrigativa presentabilità ed il dolore necessariamente regimato nelle morse di pratiche sociali standardizzate.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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