La app “Immuni” e le criticità sociali del controllo a distanza delle persone

La app “Immuni” e le criticità sociali del controllo a distanza delle persone

di Rossano Buccioni
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Martedì 5 Maggio 2020, 19:37
Che la costruzione sociale dell’individuo in Occidente necessiti della cessione di libertà in cambio di sicurezza - comunque si voglia declinare questo concetto - lo sappiamo da tempo. La vicenda della App “Immuni”, rappresenta un salto di qualità nell’utilizzo delle informazioni prodotte nella normale vita di relazione del cittadino ed ora - sull’onda dell’emergenza sanitaria - anche dalla sua vita biologica. La ricerca del necessario contenimento del contagio, fa crescere il rischio che, insieme al sovvertimento del nostro modo di vivere, possa realizzarsi quello del sistema di valori in cui eravamo soliti percepirci, dato che la necessità di opporre immediato contrasto all’emergenza, farà dei nuovi parametri di sicurezza sanitaria gli elementi cardine di inediti modelli di convivenza che inevitabilmente si andranno presto a consolidare.

Anche se la nostra legislazione prevede misure restrittive destinate ad incidere su diritti di rilevanza costituzionale (isolamento e controllo per malattie infettive, trattamenti sanitari obbligatori in psichiatria, ecc.), si tratta pur sempre di limitazioni riguardanti solo i soggetti colpiti direttamente da patologie specifiche e non il resto della collettività. Nell’emergenza Covid-19 le misure di tutela sono state estese a tutto il territorio nazionale riguardando l’intero corpo sociale, un caso unico nella storia sanitaria italiana che ha suscitato sgomento e qualche interrogativo. Infatti, la App “Immuni” si basa sul controllo a distanza delle persone ed in questo caso, come in quello dell’applicazione di un braccialetto elettronico, il rischio sarà certamente quello di una disumanizzazione soft del soggetto, necessariamente costruito in vista di uno “scopo sociale”: la persona viene adeguatamente modificata in vista di un controllo permanente, non potendosi dunque sottrarre da pesanti forme di riduzionismo, perché come un soggetto che ha commesso reati viene ridotto al suo errore ed un malato ridotto ai suoi sintomi, il sospetto contagiato rischierà di coincidere con il vulnus che inevitabilmente si determinerà nell’ambito delle sue relazioni.

Allora, rinunciare alla sicurezza, oggi vuol dire cedere informazioni che riguardano aspetti importanti della nostra vita e qui si potrà ravvisare un doppio pericolo legato a pratiche tecnologicamente orientate a determinare una idea dell’essere umano forzatamente parziale: o diventiamo i nostri dati (tecniche di profilazione digitale), oppure siamo ridotti ai nostri geni (o ad incubatori di malattia) con tecniche di screening biologici. I problemi che incontra l’implementazione di “Immuni” sono dovuti al fatto che la App in questione sintetizza entrambi questi pericoli, attivando la scomoda alternativa che legge la sicurezza di alter alla luce dell’insicurezza di ego. Nell’emergenza in atto si assiste ad un ovvio guadagno di centralità del diritto alla salute, anche se ciò può limitare altri diritti costituzionalmente garantiti, relativi alla libertà di circolazione o all’esercizio dei culti religiosi. Si tratta di una sospensione di principi-cardine del nostro ordinamento agita in forza di un altro principio fondamentale, quello sancito dall’articolo 32 (“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”). In questo articolo, anche se si prevede il diritto alla salute e non l’obbligo alla salute, è stabilito appunto che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e che “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Questo passo che rappresenta uno dei vertici della cultura giuridica, «ma anche della cultura senza aggettivi» - come sosteneva il primo Garante per la Privacy nel nostro Paese, il prof. Stefano Rodotà - fa del diritto alla salute non soltanto un bene individuale, ma un patrimonio della collettività da tutelare anche limitando altri diritti che ne offuschino l’esclusività.

Se nella cultura giuridica il diritto alla salute ha sempre rifiutato pericolose gestioni comunitarie dei corpi individuali, riaffermando il valore dello “star bene” all’interno del principio di auto-determinazione, l’emergenza pandemica sembrerebbe riproporre la tentazione di una gestione “dall’alto” dell’integrità corporea del cittadino, con un precario bilanciamento tra beni costituzionalmente garantiti, data la cogenza del fondamentale diritto alla salute. Il criterio-guida adottato dal costituente era che il danno arrecato alla propria salute non doveva produrre danno alla salute altrui, con il concetto di salute/integrità – da intendere come apice della scala di valori costituzionali – che si è mantenuto intatto, anche se gli attuali rischi sanitari vanno ricondotti a linee causali assai più complesse e collocati in condizioni storico-sociale del tutto nuove. L’Oms intende per “salute”, non solo assenza di malattia, ma una condizione di benessere psico-fisico integrale che consenta al cittadino di esercitare pienamente la libertà di partecipazione e di socializzazione. Questa idea di salute come pre-condizione funzionale all’esercizio della piena cittadinanza, corre il rischio di ridurre l’individuo alla costruzione sociale che si opera sul suo corpo: in chiave genetico/microbiologica nel caso dell’allarme-pandemia o elettronica nel caso delle tecniche di tracciamento e profilazione digitale. Certamente il “guinzaglio elettronico” non mette direttamente le mani dell’autorità su di un corpo e la forza non si esercita immediatamente nella forma della coercizione, ma il risultato determinerà pur sempre un pericoloso controllo sull’intera vita di relazione della persona. 

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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