L’ultimo sguardo ai compagni di classe e via verso il futuro

L’ultimo sguardo ai compagni di classe e via verso il futuro

di Rossano Buccioni
4 Minuti di Lettura
Martedì 23 Giugno 2020, 10:55
L’esame di maturità è un appuntamento istituzionale dove si valuta il percorso formativo di un giovane cercando di certificarne l’adeguatezza a modelli astratti di individuo ed a valori che, da elemento unificante una cultura, si mutano spesso in leve divisive all’interno della vincente idolatria individualistica. In questi tempi di crisi, all’esame di maturità si è chiesto un ripristino della normalità scolastica anche se, rispondere ad un commissario che parla al microfono o dietro una visiera di plastica, configura il paradosso tutto moderno della “normalità anormale” cui siamo ormai abituati. Un esame presuppone una valutazione e valutare è pratica tipicamente economica che dice la dominanza dei criteri alla base della società di mercato, la cui congruenza con gli scopi dell’azione pedagogica, non solo è tutta da dimostrare, ma rischia di accrescere l’importanza di aspetti relativi all’appannaggio quantitativo a scapito della messa alla prova di un processo di maturazione indice di autentica crescita personale. Inoltre, valutare non significa stabilire dati di fatto, ma attribuire un valore in base a principi rispetto ai quali si registra convenzionalmente una condivisione. La nostra cultura - condizionata dalla valutazione sintetica e dall’assillo numerico – riduce tutto a cifra per fare della differenza in più o in meno tra esseri umani (istituita dalle logiche della competizione), la golden share della differenziazione sociale. Così, in classe ci sarà un migliore ed un peggiore, anche se la scuola non dovrebbe essere luogo di replica di distanziamenti sociali, ma contesto in cui insegnare l’importanza dell’imparare ad imparare (autonomizzazione). Assecondando lo spirito del tempo, spesso le famiglie si mostrano interessate solo al voto finale perché sintesi perfetta della sanzione di una differenza, il più efficace svezzamento sociale alle logiche della valutazione che, come scrive il sociologo George Dubar, fanno capo al criterio della “perenne messa al lavoro del sé”. A livello di mentalità diffusa l’esame di maturità traccia una demarcazione tra un’età di trasgressione e divertimento (principio di piacere) ed il principio di realtà sensibile all’individuazione ed al riconoscimento sociale. Divenendo adulti si guadagna in autorità e diritti, ma ci si sottopone anche a doveri per rispettare i quali si dovrebbero introiettare dei limiti. Certamente la stessa idea di limite da imporre, subisce profonde trasformazioni e la sua progressiva attenuazione rende del tutto inutile i classici “riti di passaggio” come l’esame di maturità, dato che, sapendo di non dover eliminare i freni dell’agire, non sarà facile poi esprimere identità, illudendosi di poter essere una cosa ed il suo opposto. Nell’impegnativo contesto socio-culturale in cui migliaia di diciottenni sostengono quest’anno l’esame di maturità, dobbiamo accettare il fatto che alla scuola tocchi difendere ancora una volta i giovani dalla minacciosa realtà che li circonda, piuttosto che introdurveli con misura e saggezza. Lo sa bene il teologo e filosofo Paolo Benanti che parla di una età digitale analizzata all’interno di una teoria sul “cambio d’epoca” accelerato dal dominio tecno-scientifico, rimarcando come i ragazzi con gel igienizzante e mascherina che sta discutendo le tematiche d’esame, “potrebbe essere l’ultima generazione umana”. Del resto, prima della pandemia, già si controverteva sulla funzione di raddoppiamento della realtà rappresentata dalle culture digitali, dalla gamification e dall’allevamento mediatico e si polemizzava sull’elevato coefficiente “neotenico” della nostra cultura, con l’indiscutibile capacità del sistema economico di rivolgere specifiche offerte di consumo a giovani e giovanissimi, catapultandoli al centro delle trame vincenti di costruzione della realtà. Immersi nei paradossi sociali (stesse risorse per tutti; originalità per tutti; civiltà dei diritti che produce negazione dei diritti, ecc.), i giovani vivono sulla loro pelle il blocco della capacità di agire, costretti sovente a riflettere sul fatto che gli elementi alla base del nostro benessere possono anche determinare forte malessere in molti nostri simili. Nella speranza che questi temi vengano affrontati in sede d’esame, sarà appena il caso di ricordare come la logica sociale dominante (quella di cui fa parte anche la scuola), creatasi dallo scioglimento dei vincoli esterni all’azione e dalla messa in discussione della funzione integrativa dei principi morali, sia dominata dalla “referenza di sistema”, criterio banale quanto implacabile: funziona perché funziona e non funziona perché “ha un senso”. Se il contesto in cui si attua è questo, la scuola dovrebbe ispirarsi ad un pensiero che pensa o ad un pensiero che calcola? La questione deve sembrare irrilevante dato che per i giovani che concludono il loro percorso scolastico, il voto continua ad esercitare saldamente un monopolio valutativo. I voti hanno la funzione di far raggiungere agli allievi la sufficienza, incentivando la competizione piuttosto che la cooperazione. Il ruolo svolto dai voti è ancora quello stabilito dalla psicologia comportamentista, cioè di rinforzo. Il voto negativo ad es. può esser vissuto come uno svilimento del sé - che porta alla rinuncia - ma anche come ricerca di competenze che motivano l’adeguamento a modelli sociali vincenti. Tuttavia, se la gratificazione convenzionale del voto-rinforzo è spesso l’unica motivazione all’apprendimento, si creerà una frattura fra vita scolastica e realtà sociale. Se viviamo una inquietante condizione dove sistema psichico e sistema sociale mostrano logiche opposte di lettura della realtà, appare difficile pensare il futuro, anche mantenendo una idea condivisa di natura umana. Per affrontare tale questione, i voti contano poco.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
© RIPRODUZIONE RISERVATA