Con l’inevitabile stress da pandemia la normalizzazione dell’insofferenza

Con l’inevitabile stress da pandemia la normalizzazione dell’insofferenza

di Rossano Buccioni
4 Minuti di Lettura
Martedì 15 Dicembre 2020, 03:20

L’Organizzazione Mondiale della Sanità mette in guardia da una condizione psico-fisica denominata “Pandemic Fatigue”, ovvero stress da pandemia, una sindrome comportamentale scatenata dall’emergenza, che si manifesta con senso di inadeguatezza e stress emotivo. Si tratta di una condizione in cui la stessa percezione di un’emergenza perdurante intensifica il profondo senso di prostrazione determinato dai mesi di ristrettezze che tutti abbiamo alle spalle. Sul piano psico-sociale, la Pandemic Fatigue rappresenta una tipica reazione ad eventi stressanti eccezionalmente prolungati che comporta stanchezza mentale e perdita di sorgenti motivazionali culminanti in veri e propri stati di “anergia”, una condizione nella quale, pur desiderando di fare qualcosa alla fine si rinuncia, non a causa di impedimenti esterni, ma perché ci rappresentiamo l’agito all’interno di un investimento motivazionale eccessivo. Inoltre, le frequenti espressioni di insofferenza verso le regole in vigore per contrastare l’epidemia, ritenute un limite alla capacità di esprimere le risorse del sé, generano fantasie persecutorie e reazioni emotive contro coloro che, al contrario, cercano di rispettare le misure preventive. Naturalmente, se alla perdita del lavoro ed alla rinuncia alle proprie abitudini si sommano i rischi legati alle minacce per la salute, lo stress prenderà il sopravvento Si tratta di una condizione generalizzata di rischio acutizzata dal fatto che l’emergenza sanitaria appare destinata a diventare una componente della vita di tutti i giorni, seguendo percorsi di cronicizzazione ai quali dovremo abituarci. L’attuale rischio pandemico propone quella continuità fra stress e trauma che rinnova una questione di fondo: per “trauma” si deve intendere ogni evento capace di produrre reazioni negative, oppure il concetto va riservato ad eventi eccezionali, destinati a sconvolgere l’ordine sociale esponendoci alla disgregazione interiore? Si è sempre pensato che un afflusso incontrollabile di stimoli potesse indurre situazioni traumatiche anche in persone sane, destinate comunque a guarire esaurendosi la pressione destabilizzante esterna. Tutto ciò se il nuovo vettore traumatico non sembrava legarsi a precedenti conflitti nevrotici mantenuti allo stato latente. Però in alcuni casi il trauma riesce a riattivare antichi nodi conflittuali, determinando quadri di personalità propriamente nevrotici, specie se ci si trova in un clima di perenne conflittualità che investe tutti di angoscia. La frammentazione delle certezze ed il sentirci immersi in una sorta di iper-presente, dove non vale memoria storica né proiezione nel futuro, disegnano l’architettura nichilistica di quella condizione di corrosione dei sistemi di significato che il filosofo Roberto Calasso definiva “inconsistenza assassina” e che ora trova il modo di potenziarsi precipitandoci nella veemenza del determinismo infettivo. Nel prolungarsi dell’emergenza mutano forzatamente anche i nostri meccanismi difensivi, che dalla rimozione sembrano virare verso una torpore destabilizzante del sentire, prodottosi per il tramite di una deformazione irrealistica del proprio senso di auto-efficacia.

Gli studi sullo stress post-traumatico da evento bellico, mostrarono come la sofferenza di molti reduci non dipendesse solo dalla gravità dello shock subìto al fronte, ma anche da una condizione di vulnerabilità causata da scansioni traumatiche pregresse. Allo stesso modo, nella ricerca psico-sociale sulle organizzazioni di personalità nella società complessa precedenti lo scoppio della pandemia, emergevano dati interessanti. Una forma emergente e contradditoria di personalità era quella “normopatica” (Joyce McDougall). Si tratta di una personalità che si è sviluppata tramite strategie di identificazione con i dispositivi della globalizzazione, talmente conformata sulla realtà percepita oggettivamente da palesare evidenti deficit nella direzione del contatto con il proprio mondo soggettivo. Si potrebbe dire che invece di utilizzare ciò che è comune per poi diventare sè stessi i normopatici utilizzano ciò che è comune per limitare drasticamente l’orizzonte espressivo del sé. Il desiderio di costruirsi “un’esistenza quotidiana più sicura, meno inquietante, “spingeva molte persone a prendere le distanze dalla soggettività, ad abbandonare la propria mente” (C. Bollas). Invece di lavorare su di sé (in vista di una vita soggettiva) il normopatico “mette al lavoro il sé”, ma senza cercare alcuna risonanza interiore, ricercando esclusivo adattamento sociale, mettersi al riparo dalla vita mentale. Se l’individuo si costruiva nella distinzione/assimilazione rispetto agli altri, grazie all’esistenza di un sistema di valori istituzionalizzati dalla società e da lui interiorizzati, in quella che possiamo definire la condizione normopatica, valgono poco le condizioni di autonomia psichica che permettevano all’individuo ed alla società di rendersi reciprocamente possibili. Nel clima emergenziale della crisi sanitaria, occorre domandarsi se – accanto alle migliaia di sofferenti per pandemic fatigue - non vi siano anche forme di personalità assai controverse che, pur mostrandosi al limite prima dell’infezione, in seguito sono riuscite a produrre in qualche modo effetti di immunizzazione psicologica dalle inedite conseguenze esistenziali della pandemia. Non potendo stabilire rigorosi criteri causa/effetto a motivo della compresenza di molteplici linee causali attive nella strutturazione psichica, si dovrebbe comunque riflettere sul principio generale recentemente ribadito dalla psicologa Nicoletta Gosio, e cioè che “l’invulnerabilità al trauma si paga al non piccolo prezzo dell’indifferenza e dell’indifferenziato”.

*Sociologo della devianza e del mutamento sociale

© RIPRODUZIONE RISERVATA