Il via allo smart working, rivoluzione necessaria. Ma indietro non si torna

Il via allo smart working, rivoluzione necessaria. Ma indietro non si torna
di Giusy Franzese
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Mercoledì 16 Settembre 2020, 09:31 - Ultimo aggiornamento: 16 Febbraio, 03:41
Da poco più di mezzo milione di lavoratori ad oltre otto milioni. Nel giro di pochi giorni. Con la sua “esplosione” lo smart working è stato forse la principale innovazione nel mondo del lavoro italiano che ha portato l’era Covid. Tra iniziali perplessità, dubbi, diffidenze e difficoltà, ormai una cosa è chiara: non si torna più indietro. Il lavoro sarà sempre meno legato a luoghi fisici fissi e a orari stabiliti: si può fare, e nella stragrande maggioranza dei casi la produttività ci guadagna. C’è però da capire bene come passare da una sperimentazione temporanea nata da un’esigenza specifica (il lockdown) a un nuovo modello. Perché lo smart working incide profondamente sul nostro modo di vivere e relazionarci. Il percorso è appena cominciato. E occorre stare attenti a non sbagliare strada. In questo momento ci sono due scuole di pensiero: quella di chi vorrebbe una regolamentazione precisa dello strumento; quella invece di chi ritiene che per sua natura il “lavoro agile” (definizione italiana dello smart working) non debba avere troppi vincoli e restrizioni. E, come sempre accade, entrambe le scuole di pensiero hanno le loro buone ragioni.


Le due facce della medaglia

 Complice anche il timore la paura di uscire ed essere contagiati dal micidiale Covid, finora gli italiani hanno accettato volentieri la possibilità di utilizzare come scrivania per il Pc un angolo del tavolo della cucina, così come il divano o anche il letto. All’inizio per alcuni è sembrato anche piacevole sentire i bimbi nella stanza accanto (o anche nella stessa stanza) giocare, ridere, fare i capricci. Poi con il passare dei giorni la situazione è diventata un po’ più complicata. Soprattutto per le donne che hanno visto scomparire qualunque confine tra compiti professionali e cura per la famiglia e la casa. Un sovraccarico di lavoro che - questa è una delle critiche ricorrenti - sta rischiando di riportare l’universo femminile indietro di oltre un secolo. Dall’altro lato della medaglia c’è il fatto che si risparmia un sacco di tempo per i mancati spostamenti, che “lavorare da remoto” (altro modo di definire lo smart working) consente al dipendente di scegliersi la location più adatta: di storie in questi mesi ne abbiamo lette tante, oltre alla classica “seconda casa”, c’è chi ha lavorato dalla barca, chi sdraiato su un lettino in riva al mare, chi in montagna, chi dal piccolo borgo dove vivono i nonni. Una volta verificata la connessione internet, la fantasia si è sbizzarrita. Tant’è che i numerosi sondaggi fatti sull’argomento, alla fine arrivano tutti alla stessa conclusione: i due terzi dei lavoratori che hanno sperimentato lo smart working ne danno un giudizio positivo. Concorda con questo dato anche la ricerca condotta dell’Osservatorio Futura della Cgil. Il 57% degli intervistati mette l’accento sui risparmi di tempo (spostamenti casa-ufficio) e su quelli economici (pranzo fuori casa e trasporti), il 39% ha apprezzato la possibilità di orari più flessibili che meglio si conciliano con le esigenze familiari.

Le controindicazioni

Ma ci sono anche delle controindicazioni: lavoro dilatato (non si stacca mai), difficoltà a mantenere i rapporti con i colleghi/collaboratori, problemi di connessione a internet. Il 10% degli intervistati ha lamentato “solitudine” e il 14% “scarso controllo sul lavoratore”. A conti fatti comunque, secondo i risultati del sondaggio, quasi  un  terzo  dei lavoratori intervistati (con  l’esclusione  degli imprenditori) gradirebbe lavorare  in  smart working  anche dopo l’emergenza sanitaria  per  tutta  la  settimana. Un terzo per un paio di giorni ogni settimana. Dal punto di vista dei datori di lavoro, lo smart working comporta un ripensamento delle culture aziendali, da sempre basate sul controllo, verso organizzazioni e modelli basati su libertà e responsabilità. Non è poco. La sperimentazione forzata nel periodo del lockdown ha dimostrato che il modello funziona e in prospettiva è capace di generare risparmi di costi.

Meno controlli più fiducia

Molte aziende si stanno attrezzando per continuare a utilizzarlo. In ambito bancario, ad esempio, il gruppo Credem ha avviato un progetto che prevede, entro il prossimo biennio, l’allestimento di almeno 500 nuove postazioni agili, non assegnate ad una singola persona ma a disposizione di tutti, senza telefoni fissi e con la possibilità di prenotare le scrivanie per lavorare singolarmente oppure in team. Il gruppo Ing ha avviato lo smart working superflessibile: è il dipendente a decidere, dopo averlo concordato con il proprio responsabile, come alternare lavoro da sede e da casa in ottica di totale responsabilizzazione e fiducia;  è garantito il diritto alla disconnessione in determinate fasce orarie per un ottimale equilibrio tra vita professionale e personale; è erogato un contributo economico mensile in welfare e un rimborso per lo «shopping da smart worker professionista» per chi decide di lavorare da casa; sono previsti momenti  di formazione, ma anche di socialità sia virtuali che di persona, per coltivare le relazioni tra colleghi ed alimentare la cultura di squadra. Insomma, sembra la risposta a tutti i problemi evidenziati finora. In Parlamento sono stati presentati due disegni di legge per regolamentare lo smart working, in particolare per garantire al lavoratore il diritto alla disconnessione, ovvero rendersi irreperibile nel tempo libero senza l’angoscia di dover rispondere a mail, messaggini whatsapp o telefonate del proprio capo colto da ansia di prestazione. In Francia esiste una norma a tale proposito. In Italia no e si naviga a vista, salvo accordi aziendali firmati da gruppi lungimiranti: Enel, Barilla, alcuni Atenei come quello dell’Insubria. Nel frattempo il governo - sia presso il ministero del Lavoro che presso quello della Pa - ha già avviato tavoli di confronto con i sindacati. «Credo sia una grande opportunità» ha dichiarato la ministra Fabiana Dadone che lancia l’idea dei «poli di innovazione» con spazi condivisi. L’obiettivo nel pubblico impiego è attivare lo smart working per il 60% dei dipendenti. 
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