Smart working, contrordine: si torna in ufficio e con il Covid il lavoro diventa ibrido

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di Marco Barbieri
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Mercoledì 1 Dicembre 2021, 12:07 - Ultimo aggiornamento: 21 Febbraio, 10:45

Nel corso degli ultimi dodici mesi sono rientrati in ufficio circa due milioni di lavoratori dipendenti italiani.

E 12 milioni non l’hanno mai abbandonato. Già, perché nel momento del picco più alto (nel 2020) sono stati al massimo poco più di sei milioni e mezzo gli italiani che si sono trovati a lavorare tra la cucina e il salotto di casa. Nel 2021 con l’avanzamento della campagna vaccinale è progressivamente diminuito il numero degli smart worker, passati da 5,37 milioni nel primo trimestre dell’anno a 4,07 milioni nel terzo trimestre. Sono gli ultimi dati messi a disposizione dall’Osservatorio Smart Working della School of Management del Politecnico di Milano. Un fenomeno da ridimensionare? Tra gli apostoli dello smart working, Domenico De Masi, per citare uno dei più autorevoli sociologi del lavoro, sostiene che «la pandemia del Coronavirus ha inaspettatamente accelerato il processo, che proseguiva con lentezza eccessiva a causa di un tenace rifiuto delle aziende e delle pubbliche amministrazioni». In due anni certamente molto è cambiato: l’Osservatorio del Politecnico censiva, prima del Covid, una platea di 570mila lavoratori in smart working, nel 2019. In due anni si sono quasi decuplicati. E sono destinati a restare stabilmente sopra quota 4,5 milioni: secondo le analisi predittive lo smart working rimarrà o sarà introdotto nell’89% delle grandi aziende, nel 62% delle pubbliche amministrazioni e nel 35% delle Pmi, fra cui è forte la tendenza a tornare indietro (un terzo delle realtà che ha sperimentato lo smart working prevede di abbandonarlo).

ADESSO SI CAMBIA

 Il mainstream ha preferito dipingere l’ufficio come il «luogo non in cui si farà tutto tranne che lavorare». Certamente il luogo di lavoro è tutto da ripensare, da chi introduce la prenotazione della scrivania, a chi ridisegna il layout complessivo degli spazi. Ma certamente in attesa del “new normal” possiamo sostenere che il “next normal” sarà per lo meno ibrido. «Durante la fase di emergenza sanitaria è stata testata su più larga scala un’organizzazione ibrida, attività in presenza e da remoto. La nuova modalità di lavoro, infatti, si è dimostrata adatta a rispondere in modo più agile alla domanda di un mercato in continua evoluzione, a promuovere una maggiore autonomia dei team, svincolati da orari e luoghi fisici di attività, a favorire la sostenibilità ambientale – riducendo per esempio le emissioni legate ai tragitti quotidiani casa/lavoro – e il bilanciamento tra la vita privata e lavorativa»: è l’esperienza del Comau (società del gruppo Stellantis) leader mondiale nello sviluppo di sistemi e prodotti avanzati per l’automazione industriale nelle parole di Alfredo Valentini, responsabile delle relazioni industriali.

IL SUPER FLESSIBILE

Di più. «L’ambiente lavorativo, la flessibilità e l’autonomia contano oggi più del puro pacchetto retributivo per i candidati.

L’aumento delle candidature ricevute e le ricorrenti domande dei candidati sulla possibilità di lavorare in smart working in fase di selezione, confermano che il modello super-flessibile costituisce a tutti gli effetti una importante leva di attrazione di talenti, all’estero o in altre parti d’Italia, e un irrinunciabile benefit non monetario». Parola di Silvia Cassano, responsabile delle risorse umane di Ing Italia che rappresenta un caso di successo: la prima banca in Italia ad adottare un modello super flessibile. Attrattività e retention sono diventati un ottimo argomento per chi sostiene la necessità di proseguire nel solco dello smart working, pur nella consapevolezza che sembra «maturo il tempo di immettere sul “mercato delle idee” una riflessione che ci pare adeguatamente ampia e complessa, capace di spingersi oltre il trionfalismo del lavoro da remoto “sempre e per sempre” di cui alcuni si sono fatti alfieri, senza scadere tuttavia nell’atteggiamento opposto, conservativo, resistente al cambiamento», commenta Luca Pesenti, docente alla Cattolica, autore di un libro in uscita nei prossimi giorni (“Smart Working Reloaded”, editore Vita e Pensiero) con Giovanni Scansani, consulente d’impresa, esperto di welfare aziendale e professore a contratto.

SENZA TIMBRATURA

 Tra i pionieri di questa avventura dello smart working c’è stata sicuramente Bayer Italia, tra le primissime aziende ad aver cancellato anche la timbratura, dall’aprile di quest’anno. Qui sono state abolite anche le formule numeriche con cui si indicano i giorni di presenza obbligatoria in ufficio (in certi casi 3-2 o 4-1, ma anche il contrario). È tutto libero. Un accordo sindacale sperimentale ha sancito la priorità della flessibilità e della responsabilità. «E tutto è avvenuto senza intaccare la produttività – spiega Maria Luisa Sartore, responsabile delle relazioni sindacali e organizzazione dell’azienda multinazionale – come rivela una survey fatta con il nostro management. Questo richiede la cultura di una nuova leadership e quindi una organizzazione del lavoro da ripensare profondamente». Resta il tema della relazione: la vera criticità irrisolta del lavoro da remoto. La contaminazione delle idee e la creatività si cibano di spazi e tempi comuni. A tal proposito Scansani ricorda una frase di Steve Jobs: «Nella nostra società digitale c’è la tentazione di pensare che le idee possano essere sviluppate tramite e-mail e iChat. È folle. La creatività nasce dagli incontri». 

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