Recovery, Marco Leonardi: «Ministeri, Regioni e Comuni insieme per cambiare passo. La sfida è saper spendere»

di Luca Cifoni
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Mercoledì 5 Maggio 2021, 16:35 - Ultimo aggiornamento: 7 Marzo, 12:59

Professor Marco Leonardi, capo del Dipartimento per la programmazione economica di Palazzo Chigi: il Piano nazionale di ripresa e resilienza è ormai a Bruxelles. C’è stato un grande sforzo del governo per la messa a punto finale. Che tipo di lavoro inizia invece in questi giorni?

«Adesso tutti i ministeri devono prepararsi per gestire i vari passaggi della fase esecutiva del piano, in modo che i tempi vengano rispettati. L’Italia è stata sempre debole proprio nell’implementazione. Le amministrazioni centrali, ma anche quelle locali, su questo devono riuscire a cambiare passo, il governo farà di tutto in questi mesi per facilitare questo processo chiedendo proprio alle amministrazioni quello di cui hanno bisogno, dal punto di vista normativo e amministrativo».

Il presidente del Consiglio ha sottolineato il ruolo delle riforme, ma il nostro Paese da molti anni ha difficoltà a realizzarle. È solo un problema di volontà politica oppure in passato c’è stato un entusiasmo eccessivo verso il concetto di “riforma”, senza calcolare le ricadute sociali?

«Proprio le riforme sono la parte che è cambiata di più nel passaggio dalla versione del precedente governo a quella finale. Era noto che la commissione ce le chiedesse. Ce le ha sempre chieste, ma in passato queste richieste non erano accompagnate dai soldi. Si pensava che le riforme potessero essere un gioco in cui vincevano tutti, e che quindi non ci fosse bisogno di qualche forma di compensazione. Invece i costi sociali esistono e allora i benefici vanno distribuiti Questo si può fare anche grazie alle risorse, che ora ci sono. Ad esempio, la pubblica amministrazione deve certamente cambiare, ma in questo cambiamento rientrano anche le assunzioni che si potranno fare».

Al di là dei vincoli di finanza pubblica, spesso l’Italia non è stata in grado di utilizzare nemmeno le risorse disponibili. Cosa fa pensare che si possa invertire questa tendenza?

«Certamente ci sono amministrazioni più lente di altre. Dipende anche dal grado di centralizzazione, quelle più centralizzate riescono a usare i fondi più rapidamente. Quando le risorse devono essere usate a livello locale, e non parlo solo di Regioni e Comuni ma anche delle emanazioni territoriali dei ministeri, le cose si fanno più complicate. La sfida sta nella semplificazione e nella governance del piano. Si sta facendo un’analisi attenta per individuare gli atti che possono essere semplificati».

Il Mezzogiorno riceve circa il 40% delle risorse complessive ma alcuni amministratori locali si sono detti delusi. Avrebbero voluto un criterio più premiante per Regioni meridionali.

«Intanto direi che il 40% è molto più del 34% che corrisponde alla popolazione. Si tratta di non far restare questa percentuale sulla carta. Bisogna cercare di spendere i fondi. Io direi che la mobilitazione che c’è stata andrebbe spostata su questo aspetto, su questo impegno: usiamo tutto il 40%. Una percentuale ex ante non è mai una garanzia, anche se fosse stato scritto il 60%. E d’altra parte in passato è capitato che anche il Fondo di sviluppo e coesione non sia stato utilizzato in pieno. Il punto quindi è spendere tutto quello che c’è».

Parlando di squilibri territoriali, non c’è solo il Sud ma anche molte aree interne del Centro Italia, che scontano la crisi generale ma anche lo spopolamento e le calamità naturali. I progetti del Pnrr incideranno su queste realtà?

«Per le aree interne ci sono una serie di interventi importanti sul fronte della scuola, della sanità, delle infrastrutture, del recupero dei borghi.

Ma di nuovo, si tratta poi di dare seguito ai progetti. Ci dobbiamo rendere conto che non siamo di fronte al meccanismo classico di spesa a rimborso. Qui le risorse finanziarie sono vincolate a target da raggiungere. È un approccio molto diverso».

Accanto alle risorse del Pnrr il governo ha previsto un fondo complementare da 30,6 miliardi, e poi ulteriori risorse. C’è il rischio che siano solo un premio di consolazione?

«Se il timore è che le risorse del Fondo complementare vengano ritirate, spostate con altri provvedimenti futuri, direi che questo pericolo, almeno nel breve periodo, non esiste. Lo dimostra, di nuovo, anche l’esempio del Fondo di sviluppo e coesione. Storicamente non è successo che questi fondi siano stati dirottati su altre destinazioni anche nei casi in cui non venivano usati. Il tema semmai è un altro: fare in modo che i soldi aggiuntivi siano spesi con le stesse regole e le stesse procedure usati per quelli del Pnrr, salvo l’obbligo di rendicontazione all’Europa».

C’è una visione unitaria? Come si concilieranno esigenze sulla carta diverse, ad esempio investire sulla tecnologia e spingere l’occupazione?

«Il dibattito sulla tecnologia che crea o invece distrugge lavoro va avanti da decenni e mi sembra che alla fine si possa arrivare a concludere che il saldo totale in termini di creazione di occupazione è comunque positivo. Semmai in passato c’era minore consapevolezza degli effetti redistributivi. Come dicevamo prima a proposito delle riforme, i grandi rivolgimenti hanno costi sociali che vanno alleviati in ogni modo».

Il nostro Paese oltre a crescere meno degli altri ha ritardi sul fronte-chiave dell’istruzione, come dimostrano le statistiche. In che modo un progetto che si chiama Next Generation Eu riuscirà a cambiare questa situazione?

«Next generation Eu per come è stato concepito è proiettato nel futuro: il principio è che il beneficio deve essere maggiore del debito che si va a contrarre. Nel nostro Pnrr il piano per l’istruzione va dall’asilo nido all’università, anzi al dottorato. Poi ci sono misure specifiche sul servizio civile, sugli istituti tecnici superiori, sulle lauree scientifico-tecnologiche Stem, con dei target espliciti e ben definiti. Direi che le missioni 1 e 2, quelle relative a transizione digitale e transizione ecologica, hanno l’obiettivo di creare lavoro per i giovani, mentre la missione 4 e in parte la 5, che riguardano rispettivamente istruzione e ricerca e lavoro e coesione, sono centrate proprio sui giovani. Quindi l’obiettivo è cambiare la situazione attuale».

In sintesi, come possiamo immaginare l’Italia nel 2026? Quali saranno le differenze rispetto allo scenario di oggi?

«Sarà un Paese molto diverso, spero, ma mi limito a fare un esempio. Il Pnrr prevede tra l’altro una profonda trasformazione della Pubblica amministrazione. Non è solo una questione di uffici e burocrazia, parliamo di tutte le componenti della Pa e soprattutto quelle con cui il cittadino ha a che fare: scuole, ospedali, tribunali e così via. Ecco, se saremo riusciti a far funzionare tutti questi pezzi della macchina statale, potremo dire di avere un’Italia che funziona, per tutti. Questo può essere un bel cambiamento».

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