Pandemia e guerra: la tempesta perfetta sul welfare pubblico-privato. Ecco come trovare un nuovo equilibrio

gettyimages
gettyimages
di Marco Barbieri
4 Minuti di Lettura
Mercoledì 4 Maggio 2022, 11:43 - Ultimo aggiornamento: 5 Maggio, 07:15

Una tempesta perfetta rischia di abbattersi sul sistema di welfare del Paese, proprio quando sembrava assodato un modello integrato tra pubblico, privato e privato sociale.

Prima la pandemia, poi la guerra. Il sistema di protezione sociale è sotto pressione: gli sforzi pubblici sono stati ingenti, tanto da riproporre la centralità del Welfare State: «Non solo in Italia, si badi bene. Gli Stati Uniti stanno spendendo anche di più. Noi spesso spendiamo male, troppi ristori, troppi bonus. Troppa attenzione alle pensioni e poca alle famiglie». Tiziano Treu, presidente del Cnel e padre nobile del welfare italiano, non vuole sentire parlare di tempesta perfetta, ma non si sottrae alla valutazione critica del modello di protezione sociale. Con una differenza oggi, rispetto alla crisi del 2008: «Allora si credeva di rispondere ai problemi evocando austerità e tagli di bilancio – aggiunge Treu – oggi si è capito che occorrono risorse aggiuntive. E lo Stato rischia di metterne persino troppe. Sarebbe meglio che si occupasse di più dell’aspetto regolatorio, invece che di farsi distributore di sostegni quasi sempre poco razionalizzati».

PIÙ STATO (TROPPO?)

«Ad oggi, la risposta alla grande crisi di welfare che è stato il Covid è stata un nuovo accentramento regolatorio ed economico dell’asse del welfare verso lo Stato. Non solo in Italia, in tutti i Paesi occidentali. Una risposta comprensibile, ma insostenibile nel lungo periodo, resa possibile dalle deroghe ai vincoli e agli sforamenti di bilancio. Continuare su questa strada vuole dire impoverirsi» commenta Emmanuele Massagli, presidente di Aiwa, l’associazione che rappresenta il welfare aziendale. Prendiamo la sanità. Da anni la spesa diretta delle famiglie è in costante e inarrestabile aumento, per integrare – a volte persino sostituire – l’offerta dei servizi sanitari pubblici. E questo dimostra che l’universalismo spesso invocato è sovente solo di facciata. Massagli aggiunge: «Il nostro è un sistema fintamente universalistico, se si pensa a quanto bisogna aspettare una visita salvavita in molte regioni italiane e alla qualità di alcuni ospedali. Perché allora non mettere in circolo le risorse private non tanto dei singoli cittadini, ma delle aziende, sempre più disponibili a offrire welfare in completamento della tradizionale retribuzione? Si tratta di soluzioni senza tasse e contributi che permettono di attrarre i lavoratori più validi, che qualificano la responsabilità sociale dell’impresa».

C’è una questione contrattuale che deve essere messa al centro della riflessione. La struttura stessa della contrattazione – e forse della busta paga – potrebbe (o dovrebbe?) essere rivisitata profondamente.

«A livello macro occorre rafforzare ancora di più la componente di welfare offerta dagli Enti bilaterali presenti nei contratti di categoria, rendendoli al contempo più trasparenti, e contestualmente procedere a una revisione del Tuir (il testo unico sulle imposte sui redditi, ndr) per focalizzare meglio le risorse spese dalle aziende su benefit autenticamente di natura sociale. Senza questi ormai indispensabili “incastri” vedremo crescere ancora di più la spesa privata per il welfare, già oggi attorno ai 100 miliardi di euro di cui 40 solo per la voce “salute”, ma avremo anche crescenti fette di popolazione che non avendo ulteriori margini di spesa dovranno limitare il loro accesso a diritti fondamentali». È la voce di Luca Pesenti, docente alla Cattolica, da anni osservatore attento dell’evoluzione dell’organizzazione del lavoro e dei sistemi di welfare. Con Pesenti, Giovanni Scansani, consulente aziendale ed esperto di welfare aziendale, ha recentemente scritto un volume sull’evoluzione dello smart working e sui nuovi modelli di lavoro post-pandemia. E suggerisce una visione divergente: «Si potrebbe credere – sostiene Scansani – che lo scenario attuale, tra pandemia e conseguenze del conflitto in Ucraina, spinga verso la centralità del Welfare State mentre, a ben guardare, le criticità, come fu con la crisi del 2008, hanno semmai liberato le risposte offerte da attori privati come le aziende e gli enti del terzo settore. I tradizionali limiti del welfare pubblico, esplosi soprattutto in pandemia sul fronte della sanità, hanno spinto i soggetti profit e non profit non solo verso la riarticolazione di interventi già esistenti, ma anche verso l’innovazione, sia nei servizi che nelle tecnologie utili per erogarli».

VASI COMUNICANTI

 Il nuovo welfare – dopo la pandemia e dopo la guerra – passa «per una piena integrazione di sistema dei vari “pezzi” del welfare, oggi scarsamente comunicanti – spiega Pesenti – A livello locale non ci sono alternative alla realizzazione piena della co-programmazione e co-progettazione dei servizi: così si mette a sistema il welfare pubblico con quello privato (profit e non profit) già oggi presente sui territori». E la via maestra di questa ricomposizione dei servizi di welfare sono le aziende nei territori. «Molti ribattono dicendo che è una soluzione iniqua perché perseguibile solo nelle aziende più ricche e più strutturate – commenta Massagli – ma in Italia oltre 5 milioni di lavoratori godono di un qualche servizio di welfare aziendale, non necessariamente sanitario: non è un numero così irrilevante, anche perché in costante crescita dal 2016».

 © RIPRODUZIONE RISERVATA

© RIPRODUZIONE RISERVATA