Giovanni Tamburi, fondatore di Tip: «La mia Itaca è un'isola dove la nave-impresa si ricarica per ripartire»

Giovanni Tamburi, fondatore di Tip: «La mia Itaca è un'isola dove la nave-impresa si ricarica per ripartire»
di Rosario Dimito
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Mercoledì 3 Febbraio 2021, 13:03 - Ultimo aggiornamento: 12 Maggio, 15:25

Giovanni Tamburi, lei è uno dei principali investitori privati italiani, ed è un profondo conoscitore del mondo delle imprese: come giudica il Recovery Plan?

«Nelle ultime settimane è migliorato nei contenuti ma è sempre il risultato di una classe politica superficiale, poco attenta alla sostanza, ma soprattutto lontana dai veri temi delle imprese, fondamento essenziale del nostro Paese. Non parliamo poi della ormai chiaramente voluta disattenzione sul turismo. Il tema vero sarà chi e come dovrà darne esecuzione. Una greppia di quelle dimensioni...».

La Borsa però sembra aver reagito bene, sebbene le critiche siano copiose.

«I mercati e la finanza vanno avanti da soli, sono sostenuti da altre cose.

Anzi, adesso si dovrà fare grande attenzione. Con le massicce erogazioni da parte della mano pubblica che andranno in parte anche alle imprese, c’è il rischio che le scelte della politica sui settori o su singoli operatori possano condizionare fatturati e margini, e dunque alterare la capacità competitiva».

La ripresa economica dipende dai vaccini e dalla pandemia. Bankitalia è più negativa delle proiezioni di governo, lei da che parte sta?

«Credo che a maggior ragione oggi fare previsioni di quel tipo non abbia un gran senso. Certe istituzioni sono obbligate a fare delle proiezioni; oggi chi vive nelle imprese guarda gli ordini e può spingersi a pensare su ciò che potrà succedere nelle settimane successive, non di più, e questo è particolarmente vero in numerosi settori. Chi poteva immaginare questo lockdown mondiale, che dura ininterrottamente da ottobre e di cui nessuno è veramente in grado di ipotizzare la fine?».

Non pensa che questa crisi abbia reso più obsoleto il nostro sistema industriale e che ora ci sia necessità di aprirsi a nuovi soci e capitali freschi?

«Da decenni predico, scrivo ed incito gli imprenditori ad innovare e investire, ma più che altro a fare tre cose: aggregarsi, quotarsi in Borsa o aprire il capitale delle loro aziende. E ciò non perché il sistema industriale sia obsoleto, ma perché in un mondo globale bisogna ragionare in modo aperto, non facendo riferimento solo a famiglie chiuse, ambiti ristretti, paura di diluirsi o confrontarsi. Abbiamo migliaia di bravi imprenditori e continuiamo ad insegnare al mondo centinaia di mestieri, ma fare sistema è sempre più essenziale».

Disaggregando i dati si evince che tutti necessitano di aiuti per supportare i dipendenti, anche se il manifatturiero produce ed esporta: cosa serve per il rilancio a parte la Cig?

«La Cig non ha mai rilanciato nessuno, anzi. Ha dato alibi per non fare, ha coperto costi, per cui è stata e sarà essenziale per coprire i periodi di flesso sulle produzioni, ma le aziende si rilanciano con aiuti ad esportare, con infrastrutture che funzionano, con incentivi alle fusioni e poi con la certezza del diritto, che non c’è. E trattiene molti dall’investire».

Itaca è il nome del veicolo di investimento costituito da TIP insieme a 40 famiglie e ad alcuni manager, a cominciare da un esperto delle ristrutturazioni (Sergio Iasi), per investire in aziende in difficoltà che però, avendo un buon modello di business, possono riposizionarsi. Si dice di adesioni per 600 milioni, un importo mai raggiunto da un club deal in Italia. È la vera ricetta per aiutare le imprese post-Covid?

«Se sia “la” ricetta vera non lo so. Ma uno degli aiuti migliori possibili certamente sì. Come sappiamo le imprese italiane sono sottocapitalizzate, a volte anche di molto. Poi nel settore delle special situation addirittura ci sono solo due operatori italiani in grado di mettere equity fresco nelle società in difficoltà finanziaria, di cui uno specializzato in operazioni piccole. Le pare logico, in un grande e moderno paese come il nostro? Per cui la dotazione di capitali a nostra disposizione potrà aiutare molte imprese a riprendere il largo dopo aver sostato nel cantiere Itaca. Anche perché è frustrante, lo dico come cittadino più ancora che da operatore economico, leggere che ogni giorno qualcuno compra a sconto crediti deteriorati, spingendo le banche verso nuove difficoltà. Dobbiamo fare sistema con banche e professionisti per far uscire le imprese sane dai loro problemi, iniettando risorse umane e finanziarie, credendo nei progetti di sviluppo».

 Quali sono i dossier sul suo tavolo oltre a Moby, Pizzarotti, aziende della componentistica auto, e meccanica?

«Tantissimi, non immaginavo. Molti sono di size troppo piccola per noi, ma la base su cui lavorare è notevole, anche per dare una mano in ottica di quel consolidamento utile per competere meglio a livello internazionale».

Non ritiene che sia efficace una soluzione che coinvolga imprenditori in una management company che investa in imprese di grandi dimensioni come Alitalia e Ilva?

 «Lasciamo ad enti pubblici o partecipati dal pubblico certe operazioni. Voi dei media dovreste però concentratevi sull’Italia vera, quella delle medie imprese che tengono in piedi il paese, che pagano tutti i nostri stipendi, non di due o tre nomi che fanno notizia ma rappresentano assai poco del sistema paese. Su Ilva comunque sono riusciti a fare un gran pasticcio, distruggendo la più importante acciaieria d’Europa sull’altare di demagogie, burocrazie incapaci, conflitti di potere e incompetenze di tanti». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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