Fisco, il patto piace: corsa tra le grandi imprese all'intesa anti-accertamento

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di Andrea Bassi
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Mercoledì 3 Febbraio 2021, 12:23 - Ultimo aggiornamento: 12 Maggio, 15:27

Per primo è stato il gruppo Ferrero, quello della Nutella. Poi via via, sono arrivati gli altri. L’ultima, ma solo in ordine di tempo, è stata Generali. Sembrano passati secoli da quando i bilanci dei grandi gruppi italiani grondavano di contenziosi miliardari con l’Agenzia delle Entrate, spesso con lo strascico dei procedimenti penali. Erano i tempi del cosiddetto “abuso del diritto”, operazioni lecite riqualificate come elusive dal Fisco solo perché utilizzate per ridurre il carico delle tasse. Da qualche anno a questa parte le cose sono cambiate. L’Agenzia guidata da Ernesto Maria Ruffini e le imprese, soprattutto quelle grandi, hanno iniziato a parlarsi. E ad accordarsi prima di finire in tribunale, sul trattamento fiscale di un’operazione. Lo strumento di questa sorta di patto si chiama tecnicamente “cooperative compliance”. La possibilità di accordarsi con il Fisco oggi è riservata ai soggetti di maggiori dimensioni (allo stato attuale il limite del volume d’affari o di ricavi è fissato in 5 miliardi di euro) dotati di un affidabile sistema di controllo di gestione (Tax control framework). Il regime si fonda sulla interlocuzione costante e preventiva, con la possibilità di pervenire a una comune valutazione delle situazioni in grado di generare rischi fiscali prima della presentazione delle dichiarazioni fiscali, inclusa l’anticipazione del controllo.

L’ADESIONE

 Nel 2016, primo anno di applicazione della cooperative compliance, solo 5 società avevano aderito.

Tutte del gruppo Ferrero. L’anno dopo altre 14, poi 17, poi altre 13. Il vero boom c’è stato nel 2020, quando il “patto con il Fisco” è stato siglato da ben 20 società con fatturato superiore a 5 miliardi. Ci sono gruppi bancari come Intesa Sanpaolo, Fineco, Unicredit, Bper. Gruppi del settore energetico come Enel, A2A, la branch italiana di Kuwait Petroli, Snam Rete Gas e Shell Italia. Ci sono concessionari come Atlantia e Autostrade per l’Italia. Gruppi della moda come Prada. Società pubbliche del calibro di Leonardo, Ferrovie, Trenitalia, Poste. Ci sono Pirelli, la Nestlé, Nespresso, Novartis Farma, Barilla, San Pellegrino. Il meccanismo, insomma, sta funzionando. Le imprese hanno maggiori certezze e il Fisco riesce anche ad incassare di più senza dover finire in estenuanti contenziosi. Tanto che il direttore centrale dei grandi contribuenti dell’Agenzia, Vincenzo Carbone, ha aperto ad un allargamento della platea della cooperative compliance. «L’ideale – spiega – sarebbe amplificare la platea delle società che possono accedervi». Già dal 2015 (anno di introduzione dell’istituto) ad oggi la platea si è estesa alle società con un volume d’affari superiore a 5 miliardi (prima era superiore a 10 miliardi). «Il nostro obiettivo – prosegue Carbone – sarebbe quello di permettere l’accesso alle società con volumi d’affari dai 100 milioni di euro in su», quindi anche alle Pmi, «ma per questo occorrono più investimenti».

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LE ALTRE MISURE

Il regime di cooperative compliance non è l’unico strumento con il quale il Fisco ha teso la mano alle imprese e agli investitori. Lo ha fatto anche con l’interpello per nuovi investimenti introdotto dal decreto internazionalizzazione. Si tratta di uno strumento di interlocuzione preventiva sulla determinazione del costo fiscale legato alla realizzazione in Italia di nuovi business plan di ammontare non inferire a 20 milioni di euro e che siano in grado di produrre effetti duraturi sul livello occupazionale a beneficio del Paese. I risultati sono stati decisamente positivi. Le istanze ricevute sono state 274 e si riferiscono all’implementazione di 72 piani di investimento (di cui 36 progettati da investitori esteri). Il valore totale dei suddetti piani è pari a 38 miliardi di euro (di cui 16 miliardi riconducibili a soggetti non residenti). Il maggior gettito stimato come conseguenza dei piani di investimento oggetto degli interpelli presentati dal 2016 ad oggi è pari a circa 5,5 miliardi euro (di cui circa 1,4 miliardi derivanti da business plan di provenienza estera). Dal 2016 a oggi i piani di investimento presentati hanno determinato ricadute occupazionali pari a circa 82.000 unità. Insomma, il dialogo tra Fisco e imprese paga. In entrambi i lati.

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