Cristina Scocchia, ceo di Illy: «Ora sogno più donne ad»

La top manager: siamo ancora prigioniere di stereotipi, più facili avere ruoli istituzionali che decisionali

Cristina Scocchia, ceo di Illy Caffè
Cristina Scocchia, ceo di Illy Caffè
di Claudia Guasco
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Mercoledì 22 Febbraio 2023, 14:11 - Ultimo aggiornamento: 8 Marzo, 11:41

Se i social non sono la vita reale, nel caso di Cristina Scocchia rappresentano uno specchio fedele.

Del suo mondo, delle scelte che ha compiuto per arrivare fin qui e di quelle che continua a fare per restare in equilibrio. E così sulla sua pagina Instagram - oltre 34 mila seguaci e mai un commento fuori posto, tanto per ricordare che la solidarietà femminile esiste - ci sono i viaggi di lavoro, le giornate in ufficio ma anche gli abbracci al figlio e la mini vacanza esotica dopo la chiusura del bilancio. «Sono una persona, nella mia forza e nelle mie fragilità. Come tale mi sembra positivo condividere messaggi per me giusti», racconta. Cristina Scocchia, nata a Sanremo, classe 1973, ha studiato da amministratore delegato e ce l’ha fatta, non una bensì tre volte: in L’Oréal, in Kiko e dall’anno scorso in Illy Caffé. Laurea in Bocconi, dottorato all’Università di Torino, è entrata nella multinazionale Procter & Gamble da studentessa diventando responsabile delle cosmetics international operations in 75 Paesi dopo un’esperienza in Est Europa, Medio Oriente e Africa. «Era il 2004 ed ero l’unica donna del team - ricorda - La diversità di genere e culturale è il primo muro che ho dovuto scalare».

Scocchia, lei è arrivata in cima, ma in Italia solo il 3% dei Ceo è donna.

«Purtroppo, credo sia un ruolo professionale visto ancora come maschile. Nelle posizioni di vertice vengono considerate necessarie alcune caratteristiche, come prendere decisioni difficili sotto pressione, essere assertivi e avere attitudine gestionale. Mentre le convenzioni riconoscono a noi donne altro: capacità di accudimento, smussare gli spigoli con la dolcezza. Però, nelle emergenze, si crede che non siano in grado di agire con freddezza. Ecco, penso sia uno dei tanti stereotipi che ci fanno male. Noi donne, come gli uomini, abbiamo uno stile di leadership che non dipende dal genere, ma da competenze e carattere».

Molte società le nominano come presidente e non amministratore delegato. Un’operazione di immagine e non di sostanza?

«Mi piacerebbe vedere più donne in posizioni di comando. È più frequente che ricoprano l’incarico di presidente, un compito istituzionale e non esecutivo. E allora si ricade nei soliti schemi, poiché le doti richieste sono quelle dell’ascolto, della diplomazia e della capacità di mediazione. È un gran peccato, se si comincia da qui per un cambiamento culturale va anche bene, l’importante è che non ci si fossilizzi.

In Illy tra i dirigenti la quota femminile è del 30%, si tratta di un buon inizio. Nel mio gruppo di lavoro quattro persone su nove sono donne, tuttavia ciò che è veramente importante non è il numero, semmai che tutti abbiano la stessa opportunità nel dimostrare il proprio valore».

Suo padre insegnava alle medie, sua mamma era maestra d’asilo, nessuno vantaggio pregresso. Ha avuto le idee chiare fin dall’inizio?

«Avevo un sogno, che era quello di diventare amministratore delegato. Vedevo davanti a me una montagna molto alta, ma il mio desiderio era arrivare in vetta e l’ho trasformato in obiettivo, lavorando duro. All’inizio non avevo chiaro il percorso, al liceo ero molto indecisa tra la facoltà di Medicina e quella di Economia. Tra la quarta e la quinta mi ha molto colpito la dimensione internazionale della Bocconi, ho capito che era il mio ambito e da lì mi sono buttata. L’altro passo importante è stato entrare in Procter & Gamble, azienda che crede nell’ascensore sociale e nel talento. Mi sono fidata di loro, quando abbiamo capito ciò che vogliamo è determinante affidarsi a chi ha più esperienza».

La carriera le ha imposto scelte familiari?

«Sicuramente e non poche. La più impegnativa quando ho accettato l’incarico di ad in L’Oréal Italia. Allora vivevo a Ginevra con mio marito e mio figlio di 5 anni, io e il bambino ci siamo trasferiti a Milano, lo raggiungevamo durante i fine settimana oppure veniva lui. Non abbiamo mai saltato un weekend».

In Italia sono ancora tante le donne che, dopo la prima gravidanza, lasciano il lavoro. Consigli?

«Guardarsi dentro e capire ciò che si vuole, non lasciarsi spaventare dai sacrifici. È bellissimo fare solo la mamma, se è ciò che desideri, ma se la tua inclinazione è conciliare più ruoli, provaci. Ci saranno momenti difficili, resistere comunque vale la pena. Alle trentenni dico sempre: non permettete al vostro punto di partenza, e quindi anche all’essere donna, di definirvi».

In Nuova Zelanda la premier Jacinda Ardern si è dimessa dicendo: ho esaurito le energie. È un nuovo approccio nella gestione di un ruolo di vertice?

«Non ho sentito di uomini che abbiano fatto passi indietro. Forse perché non è mai accaduto, o non hanno avuto la stessa visibilità mediatica oppure lo hanno camuffato. Farsi da parte non è un segno di debolezza, è onestà intellettuale, rispetto per se stessi e per chi ti sta vicino. Mi auguro che questi atti liberi siano sempre comunicati in modo trasparente. Abbiamo bisogno di modelli di impegno, ma anche realistici. La carriera e la vita sono come una maratona, quando corri in piano va tutto bene, poi arriva la salita e hai il fiatone, cadi e ti sbucci le ginocchia. Fermarsi per poi ripartire è un segno di sensibilità e intelligenza». 

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