Melania, militare a processo
per i ricatti sessuali alle allieve

Salvatore Parolisi
Salvatore Parolisi
di Cristiana Mangani e Stefano Pettinari
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Sabato 13 Agosto 2011, 12:11 - Ultimo aggiornamento: 12 Settembre, 19:22
ROMA - Sembra proprio uno strano rigore quello che si cerca di imporre nella caserma Emidio Clementi di Ascoli Piceno: un misto di nonnismo e prevaricazione che avrebbe origini ben pi antiche del delitto di Melania Rea e dell’arresto di suo marito Salvatore Parolisi. Sull’attività e i metodi di quella caserma, la procura militare ha avviato l’inchiesta più di due mesi fa e sta procedendo con ritmo spedito nelle indagini, anche perché è lo Stato maggiore dell’Esercito che vuole vederci chiaro e capire come vanno le cose lì dentro.

Troppe ombre, troppe strane confidenze e misteri. In questo scenario viene fuori anche la figura di Antonio Di Gesù, 37 anni di Nardò, in provincia di Lecce, maresciallo capo in servizio proprio in quella caserma. Di Gesù non ha niente a che vedere con il delitto di Melania, se non fosse che il 29 settembre dovrà presentarsi davanti ai giudici militari per essere processato per minaccia e ingiuria continuate nei confronti di inferiori in grado. È accusato di aver avuto un vizio questo maresciallo: offendere le allieve che addestrava, far loro proposte sessuali molto dirette e, se queste non stavano al suo gioco, le minacciava e si vendicava con punizioni e rappresaglie.



La vicenda giudiziaria ha inizio a luglio del 2009, quando cinque allieve decidono di denunciare il comportamento del superiore. Si rivolgono al comandante e viene avvertita la procura militare. Le allieve, tutte giovanissime, sono volontarie che hanno scelto quindi di intraprendere la carriera militare. Vengono da Napoli, da Potenza, dalla Sicilia, dalla provincia di Roma, e sono entusiaste di fare questo lavoro. Si trovano davanti Di Gesù che ha metodi molto spicci e più che alla capacità e al rendimento, bada al fisico di ognuna di loro: «Bei balconcini, belle terrazze», si lascia andare in commenti. «Guarda un po’, hai proprio curve di livello», allude alle loro scollature. E ancora: «Che bel corpo che hai, che belle labbra». Quando poi qualcuna ha la sfortuna di trovarsi da sola in sua compagnia, si sente dire: «Certo, preferirei entrare nelle vostre camerette per trovarvi con addosso solo biancheria intima, invece delle uniformi». Chi si ribella o non accetta l’approccio sessuale si ritrova minacciato: «Guai a te se parli con altri di quanto è accaduto, ti faccio passare i guai».



E così succede: imputa a loro errori mai commessi, parla di focolai di incendio mai esistiti. Finché un giorno una delle allieve non gli manda un biglietto e questo, con la risposta del maresciallo capo, viene consegnato nelle mani del comandante. Partono le denunce, Di Gesù si ritrova sotto inchiesta. Viene rinviato a giudizio e sarà processato alla fine di settembre. Se il suo comportamento rientri in una prassi consolidata all’interno di quella caserma, sarà il procuratore militare Marco De Paolis a stabilirlo, visto che è proprio lui a occuparsi dell’inchiesta aperta sul reggimento piceno due mesi fa. Nella storia che lo riguarda, comunque, alla fine, sono state solo due le parti civili che hanno voluto portare fino in fondo le loro accuse. Altre tre hanno scelto di ritirare la denuncia. Tutte loro, però, sono state trasferite dalle Marche e hanno preso la strada del Celio, del Comando comprensorio in provincia di Salerno, del Reparto di artiglieria in provincia di Cuneo, del Comando militare dell’Emilia Romagna, del Gruppo guastatori di Palermo. Di quella vicenda non vogliono sentirne parlare. «Mi spiace - dicono - siamo militari, siamo obbligate al silenzio».



Due anni fa quando il caso è esploso, la morte di Melania era lontana, anche se le vittime del maresciallo capo hanno tutte conosciuto Parolisi, sebbene non abbiano avuto direttamente a che fare con lui. E ora i legali che assistono il caporalmaggiore dell’Esercito, gli avvocati Nicodemo Gentile e Walter Biscotti, hanno presentato istanza al Riesame per ottenerne la scarcerazione, e lo hanno fatto al Tribunale di Perugia, sede del loro studio (in casi del genere si possono utilizzare tutti i tribunali d’Italia), senza accompagnare l’istanza con la documentazione necessaria (la consegneranno all’Aquila), per tenere la strategia difensiva coperta. Quello che hanno già fatto sapere, comunque, è che il loro assistito, nell’udienza davanti ai giudici al Riesame, renderà dichiarazioni spontanee. Mentre il padre di Melania, Gennaro, si sfoga: «Io in dieci anni quel mostro di mio genero non l’ho conosciuto».
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