Fiat, le antenate di tutte le citycar:
le auto che hanno segnato un secolo

Fiat, le antenate di tutte le citycar: le auto che hanno segnato un secolo
di Sergio Troise
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Martedì 26 Giugno 2012, 12:23 - Ultimo aggiornamento: 28 Dicembre, 22:05

NAPOLI - Grande protagonista del Novecento, l’automobile ancora oggi - nel cuore del nuovo millennio - al centro di studi e dibattitti: un fenomeno industriale, ma anche di costume e di consumo, da analizzare in chiave storica, per capire il secolo rombante in cui siamo cresciuti, passando dal carro trainato dai buoi (cavalli, somari) alle evoluzioni pi spinte del motore a scoppio. In questa ottica ha lavorato Daniele Marchesini, già professore di storia contemporanea all’Università di Parma e autore de “L’Italia a quattroruote, storia dell’utilitaria” (Il Mulino, pagg. 230, euro 24,00), un libro che ricostruisce la crescita industriale e l’evoluzione della motorizzazione nel nostro Paese, concentrando “inevitabilmente” - come lo stesso autore nota - la massima attenzione sulla Fiat, dalle origini agli anni 70.

Dall'utilitaria alle citycar. L’ispirazione, se così può dirsi, arrivò da Henry Ford, l’inventore della catena di montaggio e della Ford T, prima auto di serie accessibile a tutti (1908-1928). Sull’esempio americano si sviluppò anche in Italia un’impresa industriale senza precedenti per quell’epoca. E fu così che la Fabbrica Italiana Automobili Torino (FIAT) avviò, dopo il modello Zero (prima vettura di cilindrata ridotta, costruita dal 1912 al 1915, di cui stranamente il libro non fa cenno), la produzione della 501, seguita dalla 509, dalla Balilla e dalla 500-Topolino (510.000 unità dal 1936 al 1955). La svolta, in termini di produzione (e mercato) tra il ‘55 e il ‘69, con 2.700.000 Fiat 600, cui si aggiunsero, dal ‘57 al ‘75, 3.680.000 Nuova 500. Un percorso lungo, che ha trovato sbocchi nelle citycar dell’era moderna, tuttora in produzione ma del tutto diverse dalle loro progenitrici. Quelle ebbero infatti un ruolo sociale specifico: dare lavoro a chi le costruiva, strappandolo alle campagne e a un’Italia sottosviluppata e rurale, e motorizzare il Paese contribuendo alla sua. Un processo non facile, ma ormai concluso, che viene raccontato in tutte le sue sfaccettature, cogliendo alcuni aspetti vicini all’attualità. Un esempio per tutti: il duro rapporto tra azienda e sindacato, in particolare Fiom-Cgil.

Sindacato-azienda: ieri come oggi. Accadde nel passaggio tra la Topolino e la 600, negli anni 50. Il sindacato più vicino al Pci contestava alla Fiat di ostinarsi nel programmare auto di dimensioni, cilindrata e prezzo troppo alti, mentre era necessario puntare su una utilitaria moderna ma più economica della Topolino, di cilindarata ridotta e dai consumi limitati, un’auto alla portata di tutti, anche della classe operaia. Di fronte alla riservatezza della Fiat (che in realtà – riconosce l’autore – stava lavorando da tempo a un progetto affidato all’ingegnere Dante Giocosa, noto come il teorico della semplicità) il sindacato scese in campo con una plateale provocazione: alla festa del 1° maggio 1952, e alle varie feste dell’Unità di quell’anno, presentò il prototipo realizzato da tecnici di propria fiducia, di una utilitaria destinata ai lavoratori, “quella che l’azienda non vuole mettere in produzione per privilegiare auto più grandi e costose. Quando finalmente la Fiat si decise a sostituire la ormai vecchia Topolino con la 600 (1955), il sindacato dei metalmeccanici tornò alla carica rivendicando il proprio ruolo nella svolta. Addirittura l’azienda venne accusata di aver copiato il progetto e venne stampato un manifesto in cui si leggeva: “I lavoratori salutano la 600, importante realizzazione della capacità degli operai, dei tecnici e degli impiegati della Fiat, sulla linea indicata dalla Fiom”. Ne scaturì uno scontro legale, non approdato però in tribunale. Alla dirigenza Fiat bastò sentirsi “risarcita” dalla pesante sconfitta subita dalla Cgil nelle elezioni per le commissioni interne del 1955, quando Cisl e Uil balzarono dal 21,8 al 62% della rappresentanza, mettendo in difficoltà il sindacato vicino al Pci.

Da Mussolini a Berlinguer. Questo dell’auto popolare, “bene democratico alla portata di tutti”, è stato uno dei temi portanti del 900. E ha contribuito anche a sottolineare certe distanze tra Nord e Sud. In proposito, Marchesini cita un articolo di Giovanni Ansaldo, datato agosto 1960, in cui il direttore del Mattino osservava: “L’Italia è anche il Mezzogiorno, dove non l’automobile di tutti ma il ciucciariello di troppi è ancora indice di arretratezza”. In quegli stessi giorni, il Corriere della Sera pubblicava in prima pagina un articolo di Luigi Einaudi intitolato “L’automobile per tutti”. Il dibattito tra gli anni 50 e 60 - la ricostruzione storica di Marchesini lo spiega bene - aveva radici profonde: sin dai tempi del fascismo il tema della mobilità individuale era stato al centro dell’attenzione. Nel 1929 Mussolini teorizzava che “proletarizzare l’automobile significa deproletarizzare le masse”. E notava: “Non vi sarà movimento rivoluzionrio in America perché ogni operaio ha la sua Ford”. A cose fatte (Italia industrializzata e motorizzata) nel 1972 Enrico Berlinguer rivelerà che in realtà il Pci non era mai stato del tutto favorevole alla motorizzazione di massa cavalcata dalla Fiat, rivendicando “il merito dei comunisti di non essersi lasciati ubriacare dal cosiddetto miracolo economico”. Quel Pci era contro i simboli del consumismo e gli status symbol della modernizzazione. Voleva addirittura che il listino della 600 fosse fissato dal Comitato Interministeriale dei prezzi, cioè dallo Stato. E la Cgil - come racconta Marchesini - era perfettamente allineata su posizioni intransigenti. Salvo fare mea culpa, anni dopo, ricorrendo alla profonda onestà intellettuale di Vittorio Foa (ex segretario generale di Fiom e Cgil), che riconoscerà pubblicamente di “aver sbagliato tutta la politica sindacale degli anni 50 e 60”.

Le più amate dagli italiani. Il libro non si schiera, ma tratteggia bene lo spirito del tempo non colto prontamente da tutti. E diventa godibile quando si sofferma su alcuni particolari solo apparentemente marginali, come il mutamento del linguaggio che accompagnò la crescita della motorizzazione (da “perdere le staffe” passammo a “prendere una sbandata”; da “andare a briglia sciolta” a “andare a tutto gas”…) e quando ci rimanda all’euforia dei primi viaggi sull’autostrada del Sole, realizzata a tempo di record tra il 1956 e il 1965, alla scoperta degli esodi estivi, anche a bordo della piccola 600 e della piccolissima 500. Le utilitarie più amate dagli italiani.

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