Coronavirus, quelli che non si contagiano: la scienza studia il caso degli “immuni per natura”

Covid, quelli che non si contagiano: la scienza studia il caso degli immuni per natura
Covid, quelli che non si contagiano: la scienza studia il caso degli “immuni per natura”
di Graziella Melina
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Lunedì 25 Gennaio 2021, 13:47

Dopo un anno di pandemia e milioni di contagiati, restano ancora nell’ombra i casi di chi sembra inattaccabile dal Covid-19. Valeria Fabbretti e Alessandro Antonini, una coppia originaria di Terni ma di stanza a Milano, ne sono un esempio. Lui un anno fa si ammala, ma pensa sia polmonite, lei gli sta accanto per accudirlo, ma senza infettarsi. La conferma arriva mesi dopo con un test seriologico. Antonini risulta positivo, Fabbretti no. Come si possa spiegare la capacità di alcuni individui di resistere al contagio è presto per dirlo. Ma gli scienziati che stanno studiando questi casi un’idea ce l’hanno già.

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I FATTORI IN GIOCO

«Quando c’è una pandemia i fattori in gioco sono il patogeno, l’ospite e l’ambiente, ossia il contesto in cui si sviluppa l’infezione - premette Giuseppe Novelli, genetista del policlinico Tor Vergata di Roma e presidente della Fondazione Giovanni Lorenzini di Milano - Noi ci siamo concentrati sulla seconda, che è fondamentale. I primi mesi dell’infezione ci siamo accorti che ci sono gli asintomatici, i moderati lievi, i casi gravi. Ma se il virus è lo stesso allora è chiaro che la differenza la fa l’ospite. Questo accade sempre, con tutte le infezioni». Ecco che il team degli scienziati di Tor Vergata, insieme ad un gruppo di oltre 250 laboratori in tutto il mondo coordinati dalla Rockfeller University di New York stanno provando a sbrogliare la matassa. «Studiamo il dna delle persone, facciamo correlazione statistica in base all’età e al sesso. Ci siamo prima concentrati sui malati gravi - racconta Novelli - e abbiamo scoperto che esiste un 10-12 per cento di casi che hanno una caratteristica genetica particolare, non riescono cioè a produrre interferone che è la prima molecola di difesa. Sulla base di questa esperienza ci siamo chiesti se ci sono differenze genetiche in quelli che noi chiamiamo i “resistenti”, cioè persone che quando convivono con un soggetto che è certamente positivo non solo non si ammalano, ma non si infettano nemmeno».

LA GENETICA

A pesare sull’infezione ci sono poi diversi fattori di rischio. «Abbiamo trovato almeno una cinquantina di geni che oggi danno più o meno una suscettibilità ad ammalarsi - spiega Novelli - Ma non basta, perché ciò può essere scientificamente valido, ma deve essere clinicamente utile. Bisogna capire in sostanza se questi geni hanno un peso. Ce ne sono alcuni che regolano l’interferone e hanno un ruolo maggiore, altri come i gruppi sanguigni che hanno un peso molto minore, inferiore anche all’età e all’obesità. Bisogna studiarli tutti». Per poter far parte del gruppo dei soggetti che verranno esaminati nello studio dell’Università di Tor Vergata occorre dimostrare di avere alcuni specifici requisiti. Le persone che vogliono partecipare verranno richiamate e sottoposte ad una prima selezione telefonica. «Abbiamo un protocollo approvato dal nostro comitato etico - precisa Novelli - In molti ci stanno scrivendo per poter partecipare. Ma dobbiamo avere la certezza che abbiano i requisiti, che abbiano fatto per esempio tutti i test per il Covid». Ma non è semplice capire se davvero si è immuni al virus basandosi soltanto sul risultato di un test. Come sottolinea Roberto Luzzati, professore di malattie infettive dell’Università di Trieste, «l’immunità non è data solo dagli anticorpi. Esiste anche l’immunità cosiddetta cellulare». Per scoprirla è necessario indagare i linfociti.

 

IL SISTEMA IMMUNITARIO

«Noi abbiamo la cosiddetta immunità cellulo-mediata nella quale - evidenzia Luzzati - entra in gioco il sistema immunitario cellulare che poi è quello che mantiene la memoria nel tempo, molto più a lungo degli anticorpi che possono anche scomparire. Sulla durata dell’immunità che deriva dagli anticorpi, sappiamo in effetti ancora relativamente poco. Secondo gli ultimi studi, dopo l’infezione gli anticorpi dovrebbero essere presenti almeno 6-8 mesi, o forse di più». A trarre in inganno sulla presunta resistenza al virus potrebbe poi essere anche il test effettuato. «Ricordiamo che alcuni tamponi hanno una sensibilità di circa il 70 per cento, quindi un 30 per cento lo perdiamo - ricorda Luzzati - Si aggiunga poi che gli asintomatici sono circa il 50 per cento dei soggetti e rappresentano il tallone di Achille di questa pandemia». 

 

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