Giuseppina Petrelli, primario al "fronte" Covid-19: «Spesso diamo l'ultimo conforto a chi muore senza familiari vicino»

Giuseppina Petrelli, primario al "fronte" Covid-19: «Spesso diamo l'ultimo conforto a chi muore senza familiari vicino»
Giuseppina Petrelli, primario al "fronte" Covid-19: «Spesso diamo l'ultimo conforto a chi muore senza familiari vicino»
di Alessandra Clementi
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Domenica 5 Aprile 2020, 13:15

SAN BENEDETTO - Al fronte fin dal primo caso di Coronavirus in Riviera, poi la trasformazione del Madonna del soccorso in centro Covid, l’impegno medico e quello umano che ogni giorno vedono in prima fila un primario di Pronto soccorso come la dottoressa Giuseppina Petrelli.

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Il rapporto con un malato Covid è diverso dagli altri? 
«Ci troviamo a gestire un paziente che va trattato e monitorato costantemente. Spesso i malati sembrano star meglio poi possono aggravarsi nell’arco di due ore. Effettuiamo i controlli, gli esami e quando vediamo peggiorare i parametri cerchiamo di intervenire per evitare l’aggravamento del quadro clinico». 
Con il Covid-19 si muore senza il conforto dei propri familiari e voi diventate le uniche persone al loro fianco.
«I medici in questa patologia diventano anche le ultime persone che i pazienti hanno al loro fianco prima di morire. Decessi che avvengono senza il conforto dei propri familiari, un fatto mai capitato finora, da qui l’importanza del ruolo del medico». 
 
Come avviene l’approccio con il paziente? 
«I primi giorni i pazienti si sentono confortati dalle cure, avviene una sorta di rimozione, ma con il trascorrere dl tempo subentra lo sconforto e spesso li ritroviamo in lacrime. Vivono il dramma della malattia e allo stesso tempo della solitudine oltre al timore di contagiare i propri famigliari. Per questo, appena si trovano senza ventilazione, cerchiamo di contattare telefonicamente i parenti per consentirgli una chiacchierata al cellulare. Ma l’impatto emotivo è notevole anche su di noi». 
Il Covid ha cambiato anche l’approccio con la morte?
«Siamo abituati a confrontarci costantemente con la morte, lavorando in un reparto in prima linea come il Pronto soccorso. Morti sia improvvise, causate da incidenti, ma anche decessi previsti come nel caso di malattie incurabili. Di fronte al Covid ci troviamo ad affrontare un nemico quasi sconosciuto, una malattia grave e soprattutto che ha cambiato tutti gli scenari del fine vita». 
Si crea un rapporto più stretto con il malato?
«Di fronte a un momento così drammatico abbiamo ritrovato l’alleanza tra medico e paziente che negli ultimi tempi avevamo perso. Ho alle spalle un’esperienza professionale al Gemelli di Roma, ma credo che mai come ora ci sentiamo vicini a loro». 
Preoccupazione per i pazienti ma anche per se stessi? 
«Sì, perché se da una parte il medico si trova spesso ad accompagnare il malato nei suoi ultimi momenti, a confortarlo quando il quadro clinico è ormai compromesso, dall’altro c’è un professionista che ha anche lui stesso paura per sé e per i propri familiari». 
Anche per voi una prova emotiva?
«Ci sentiamo doppiamente soli in quanto temiamo di contagiare i nostri cari e così ci mettiamo in quarantena e anche una volta fuori dall’ospedale viviamo da soli». 
Lei è primario di un Pronto soccorso che così come l’intero ospedale ha subito una riconversione in Centro Covid. Che ne pensa?
«Sì uno sforzo professionale e logistico non indifferente. Abbiamo dovuto ricostruire un intero ambiente di lavoro. Un po’ come le industrie che fabbricavano auto e ora sono state riconvertite per produrre respiratori. Abbiamo dovuto modificare l’intera organizzazione del lavoro e delle prestazioni tanto che mi sento di ringraziare ogni medico, ogni infermiere e operatore. Mi sono commossa di fronte all’abnegazione di tutti». 
Un impegno da parte di tutti? 
«Sì questa esperienza ci ha trasformati in una vera squadra, ci siamo sentiti molto più uniti come mai era accaduto».

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