ANCONA - Contiene l’effetto-panico. Senza orpelli, con un’affermazione secca: «Sì, riusciamo a garantire questo difficile equilibrio. Almeno per i prossimi giorni». Abele Donati, governa la Clinica di terapia intensiva: sulla carta, non più di 19 letti destinati alla cura del Coronavirus.
«Siamo organizzati come all’epoca della prima ondata pandemica. Stesso numero di posti. Più di ogni altra cosa, pesa la tensione per cercare di non andare oltre». Stempera i timori con l’efficacia dell’azione: «Giorni fa abbiamo utilizzato due postazioni Obi, l’Osservazione breve intensiva, per evitare di sforare, per salvaguardare l’attività chirurgica, che è fondamentale per tutta la regione». Indica gli argini da non travalicare. «In questo momento il nostro sforzo ha un solo obiettivo: non ricorrere ai 10 posti in più in Divisione che, ribadisco, penalizzerebbero la chirurgia. Almeno finché non saranno pronti i 10 letti “puliti” al sesto piano». Sono gli spazi che in origine erano destinati al Day Surgery, gli interventi che hanno bisogno di un solo giorno di ricovero. Il prof dà lo spessore del suo resistere: «I lavori di adeguamento non potranno essere terminati prima di un mese». E ribadisce la condizione, imprescindibile, incisa anche nel piano pandemico degli Ospedali Riuniti: «Mai senza l’assunzione di 25 nuovi infermieri». Il vero discrimine.
Le differenze
Procede con destrezza su un filo, sottile e teso. In bilico sul dolore. «I casi più complicati della semi-intensiva li seguono i nostri anestesisti. E, appena c’è il sentore che s’aggravano, li spostiamo». Un modo per far quadrare la sua previsione iniziale: «Per questo mi sento di dire che nei prossimi giorni riusciremo a mantenere la situazione stabile».
L’identikit
Cambia il profilo, ma non la sostanza del male. Non solo anziani: l’identikit del paziente nel suo reparto segue piuttosto il criterio dell’alta specialità. «Essendo l’unico centro regionale Ecmo, il macchinario che attiva la circolazione extracorporea e permette di mettere a riposo polmoni devastati, da noi arrivano i più gravi e i più giovani. La media dei ricoverati è tra i 50 e i 60 anni». Sono sei apparecchi, tutti impegnati. Sulla patologia pregressa che non dà tregua va tutto d’un fiato: «L’obesità. È l’elemento che genera il rischio maggiore». E non rinuncia a fare scuola: «Noi pratichiamo la pronazione prolungata: 48 ore anziché le classiche 16 ore. Abbiamo pubblicato la nostra esperienza. E sono già linee guida». Non distoglie mai il suo sguardo esperto, ma si premura di riempirlo d’umanità: «Vorrei ricordare a tutti la grande fatica sostenuta da medici e infermieri. In questa seconda ondata lo sforzo psicologico è ancora di più pressante. Prima si affrontava l’ignoto. Ora c’è più consapevolezza e stanchezza». In trincea.
Le vittime
La quotidianità è ferita a morte da altre tre esistenze che non hanno retto l’onda d’urto del virus. Il loro cuore ha smesso di battere in corsia, a Jesi. Stessa sorte per una donna di 97 anni, del posto, e per un uomo di 73 anni di Falconara. Identico destino per un giovane disabile dalla nascita, 39 anni, residente a Pianello di Ostra. Era figlio unico. S’era aggravato dopo aver preso il Covid ed era stato trasferito in ospedale. È morto mercoledì. I genitori sono in quarantena e non hanno potuto partecipare all’ultimo saluto. Il carro funebre è passato sotto casa, e loro si sono affacciati alla finestra e hanno detto una preghiera. Insieme al parroco. In trincea.