Condannato a 16 anni e 8 mesi
Ma l’untore dell’Hiv se la ride

Il ghigno di Claudio Pinti
Il ghigno di Claudio Pinti
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Venerdì 15 Marzo 2019, 05:20
ANCONA Non è più tempo di stralunate teorie negazioniste. Non serve più abbeverarsi al credo di certi guru No-Vax, come l’ultimo medico raccattato sul web per portare contributi alla sua difesa ballerina (l’Aids è un’invenzione delle case farmaceutiche), lo stesso pseudo scienziato che un mese fa provava a reclutare sui social bambini con gli orecchioni per chissà quale sperimentazione. Per Claudio Pinti, 37 anni, arriva il giorno del giudizio e la sentenza di condanna - 16 anni e 8 mesi di carcere, oltre al risarcimento di vittime ed eredi - spazza via ogni sottocultura del revisionismo scientifico. 

 

Per il gup Paola Moscaroli, che l’ha processato con rito abbreviato, l’ex autotrasportatore di Agugliano arrestato il 12 giugno scorso sapeva benissimo di essere malato di Hiv e non esitò a infettare con rapporti sessuali non protetti almeno due donne. Sia Giovanna, la compagna che gli aveva donato la gioia della paternità, uccisa da un tumore indotto dalla sua sieropositività nel giugno 2017. Sia Romina Scaloni, l’ultima fidanzata finita nella tela dell’untore, che dopo aver scoperto il suo inganno ha trovato il coraggio di denunciarlo e farlo arrestare, interrompendo le scorribande di un predatore del sesso che si vantava di aver collezionato 228 partner e reclutava prede di ogni genere sui siti di incontri hard. 

Per questo Pinti incassa una condanna sia per l’omicidio volontario dell’ex compagna, sia per le lesioni personali volontarie, aggravate dall’aver trasmesso una malattie inguaribile, nei confronti di Romina, l’altra giovane vittima che ha avuto l’esistenza sconvolta dalla love story con Claudio ma oggi vive a testa alta. E deve ringraziare solo una coincidenza temporale favorevole, se ieri ha limitato i danni. 
Solo sei mesi dopo la morte della compagna, è entrata in vigore la legge che prevede anche l’ergastolo per chi commette omicidio non solo contro il coniuge o l’altra parte di un’unione civile, ma pure nei confronti della «persona legata da relazione affettiva e stabilmente convivente». Eppure fino all’ultimo Pinti ha tentato di negare. Negare di essere malato, negare di aver nascosto la sua sieropositività ai partner, negare di aver convinto Giovanna a non curarsi. Ieri, camminando scortato dalle guardie carcerarie verso l’aula udienze al primo piano del palazzo di giustizia, ha abbozzato lo stesso ghigno da filibustiere che sfoggiava nel videomessaggio dell’ultima ignobile messinscena tentata con Romina nel maggio scorso, quando lei l’aveva smascherato e lui fingeva di sottoporsi a un test dell’Hiv con un kit da farmacia, per farla stare tranquilla. L’untore dell’Hiv (soprannome che la sua difesa contesta evidenziando che le indagini della Mobile non hanno fatto uscire allo scoperto altri contagiati) s’era fatto tradurre dal carcere romano di Rebibbia, dov’è recluso nella sezione per malati di Hiv, per rendere dichiarazioni spontanee o farsi interrogare. 

Richiesta fuori tempo massimo, così Pinti non ha potuto cimentarsi nell’impresa di confutare le conclusioni della perizia che lo inchioda alle sue responsabilità, dimostrando che i virus che hanno contagiato Giovanna e Romina «appartenenti allo stesso cluster e hanno gradi di somiglianza tali da farli ritenere di avere un’origine comune», facendo concludere che «Pinti abbia infettate entrambe le donne». Non ammessa dal gup neanche la memoria che l’avvocato difensore Alessandra Tatò avrebbe voluto depositare per mettere in discussione la validità scientifica della perizia firmata da due esperte del calibro dell’infettivologa Cristina Mussini, del Policlinico di Modena, e dalla professoressa Francesca Ceccherini-Silberstein, virologa a Tor Vergata. 
Rifiuta di curarsi
Pinti, che ancora oggi rifiuta di curarsi e alterna il carcere all’ospedale, alla lettura della sentenza ha ridacchiato, con quel ghigno che seppelliva ogni speranza di un suo pentimento, come fa notare l’avvocato Alessandro Scaloni, legale di parte civile per Romina. «In questa vicenda particolarmente dolorosa la cosa che ci ha dato più fastidio è stato l’atteggiamento tenuto da Pinti per tutto il procedimento - dice l’avvocato -. Non ha manifestato un briciolo di pentimento, rimorso, compassione, non ha mai neanche provato a chiedere perdono per il male che ha fatto. Ha tenuto un atteggiamento arrogante e irrispettoso per le vittime, negando non solo l’Aids ma anche il male che ha fatto, attaccandosi a tutti i possibili cavilli processuali. Alla lettura della sentenza si è messo anche a ridere». Un suo diverso atteggiamento, con una minima assunzione di responsabilità, secondo l’avvocato Scaloni «avrebbe potuto mitigare la sofferenza delle persone a cui ha fatto del male». 
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