ANCONA - «È indubbio che fu Pinti a trasmettere alla Gorini il virus Hiv» nel corso del 2009. All’epoca «era consapevole di essere sieropositivo e di essere in grado di trasmettere il virus». Sono gli stralci delle motivazioni della sentenza con cui lo scorso dicembre la Corte di Cassazione di Roma ha reso definitiva la sentenza di condanna a 16 anni e 8 mesi di reclusione (in abbreviato) ai danni di Claudio Pinti, 39enne jesino accusato di aver infettato con l’Hiv le sue ex compagne, tenendo nascosta la malattia. Due le accuse: lesioni personali gravissime e omicidio volontario.
Il primo reato (ma non motivo di ricorso in Cassazione) fa riferimento all’infezione contratta da Romina Scaloni, la donna di Agugliano che ha denunciato Pinti, con il quale aveva iniziato una relazione nel corso del 2018, dopo aver scoperto di essere positiva al virus. L’accusa di omicidio, sopraggiunta nell’inchiesta in un secondo momento, è legata alla morte di Giovanna Gorini, ex convivente dell’imputato e madre di sua figlia. Giovanna è spirata nel giugno del 2017 a causa di una patologia tumorale connessa all’Hiv.
Pinti, difeso dall’avvocato romano Massimo Rao Camemi, si trova in carcere. Stando alle motivazioni espresse dai giudici non ci sono dubbi: fu il 39enne a infettare l’ex convivente Giovanna, pur sapendo di essere sieropositivo. «Pinti – si legge nella sentenza – non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento», ovvero l’infezione della madre di sua figlia e, poi, la morte. «In effetti, le convinzioni espresse dall’imputato sulla tossicità della chemioterapia, che egli aveva indotto la Gorini a non intraprendere (se non nella fase finale), non potevano cancellare l’evidenza» della patologia tumorale sorta «proprio per la mancata sottoposizione della donna alle terapie antiretrovirali».
Pinti «non poteva non essere consapevole di essere la causa della morte della Gorini e, ciò nonostante, aveva ripetutamente negato di essere sieropositivo con la Scaloni».
In definitiva, ha sostenuto la Corte, «il nesso di causalità tra la condotta nel 2009 e la morte della Gorini non venne interrotto dal rifiuto della donna di assumere le terapie antiretrovirali e di sottoporsi alla chemioterapia; scelta che, comunque, Pinti sollecitò».