Vincenzo Salemme: «Anche un napoletano può essere depresso»

Vincenzo Salemme: «Anche un napoletano può essere depresso»
Esiste una lettera scritta da un grande intellettuale italiano, Angelo Maria Ripellino, slavista, poeta e scrittore scomparso nel 1978. Indirizzata a un suo allievo, era stata...

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Esiste una lettera scritta da un grande intellettuale italiano, Angelo Maria Ripellino, slavista, poeta e scrittore scomparso nel 1978. Indirizzata a un suo allievo, era stata composta da un letto d'ospedale: «Continuate questo taglio nel bosco, questo rinnovamento, questo sterminio dei luoghi comuni». Sono parole che riaffiorano alla memoria dialogando con Vincenzo Salemme, noto regista di cinema e teatro che, nonostante il suo clamoroso successo, e forse anche a causa di esso, lotta da diversi decenni per ricordare la sua natura e la sua origine, quella di drammaturgo nato alla scuola di Eduardo. Nella sua nuova commedia, Napoletano? E famme na pizza!, che debutterà il 20 novembre al Teatro Mancinelli di Orvieto (da qui inizierà una lunga tournée per tutta Italia che si concluderà a Roma: al Teatro Olimpico dal 29 marzo al 25 aprile), l'autore, attore e regista nato a Bacoli (in provincia di Napoli) 64 anni fa, prende di mira tutti i luoghi comuni sui napoletani. Un punto di partenza per discutere di stereotipi, desideri, rimpianti, dolori e inattese felicità. Lo spettacolo nasce dal suo ultimo libro (Baldini & Castoldi, 2020), Napoletano? Famme na pizza, che a sua volta cita una battuta della sua commedia E fuori nevica.

 


Chi è l'oggetto della sua satira?
«Tutti coloro che continuano a dipingere i napoletani come: allegri, imbroglioni, tifosi del Napoli e naturalmente fanatici della pizza».


Lei rivendica, per esempio, il diritto alla depressione?
«Esattamente. Un napoletano non può essere disperato o depresso. E invece capita anche a noi».


Le è mai capitato di essere vittima di un luogo comune?
«Quando ero bambino, a Bacoli, tutte le volte che mio padre andava a lavorare a Napoli avevo paura che non tornasse perché avevo preso tremendamente sul serio il detto Vedi Napoli e poi muori».


Dove vive adesso?
«Tra Napoli e Roma. Ho un amore folle per entrambe le città».


Cosa l'attrae di Roma?
«La prima volta che venni a Roma feci l'autostop. Avevo 18 anni. Quando vidi l'isola Tiberina, per poco non svenni. Era talmente bella e romantica. Per me non è cambiata».


A Roma conobbe Eduardo
«Si. Eduardo stava registrando a Cinecittà le sue commedie teatrali per la Rai. Mi presentai per fare la comparsa. Ma appena mi vide, forse per via della mia allucinata magrezza, mi prese per dire una battuta. Forse pensava che avessi bisogno di mangiare. C'era Pupella Maggio che mi notò e disse ad Eduardo: perché non gli fai un provino? E così feci il mio primo ruolo in Quei figuri di tanti anni fa e subito dopo ne Il Cilindro con Monica Vitti».


Ha nominato due grandi interpreti italiane. Cosa ricorda di Pupella Maggio?
«Pupella era indistinguibile dal ruolo. Appena entrava in scena, non capivi mai se a parlare era lei o il personaggio che andava a interpretare».


Monica Vitti ha appena compiuto 90 anni. Quale immagine conserva di lei?
«Era molto diversa da Pupella: lei si avvicinava al personaggio come può farlo una bambina».


Quando ha cominciato a scrivere commedie?
«Già da bambino facevo una rappresentazione ogni Natale, con i personaggi della mia famiglia che studiavo durante l'anno. Ma la mia prima vera commedia, Sogni e bisogni, è andata in scena al Teatro dell'Orologio di Roma. Lì mi vide Umberto Orsini, che mi portò al Piccolo Eliseo: dal 1992 al 1999, ho messo in scena due commedie all'anno».


La prima si intitolava La gente vuole ridere. È una legge inflessibile?
«È vero che la gente vuole ridere, ma si può far ridere parlando anche di materie sensibili e di tragedie sociali e personali».


Trenta commedie e trent'anni di vita della sua compagnia, Chi è di scena!. Per non parlare del cinema e della tv. Cosa chiede a questo punto a se stesso?


«Agli attori, e a me stesso, raccomando sempre una sola cosa: di vivere. Nell'istante presente. Qui ed ora. Non ieri. Non domani. Non vedo l'ora di incontrare di nuovo il pubblico. Per me sentirlo ridere o piangere è una manifestazione del divino». Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico