Ruffini nelle Marche per presentare il film “Ragazzaccio”: «Racconto di un bullo e del virus dell'amore»

Ruffini nelle Marche per presentare il film “Ragazzaccio”: «Racconto di un bullo e del virus dell'amore»
ANCONA - Paolo Ruffini nelle Marche. Lunedì. Per presentare il suo nuovo film da regista, sceneggiatore e produttore: “Ragazzaccio”. Ruffini sarà al...

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ANCONA - Paolo Ruffini nelle Marche. Lunedì. Per presentare il suo nuovo film da regista, sceneggiatore e produttore: “Ragazzaccio”. Ruffini sarà al Cinema Azzurro di Ancona alle 20, quindi andrà a Civitanova, Teatro Rossini, inizio della proiezione alle 21,15. Interpretano i personaggi principali: Alessandro Bisegna, Jenny De Nucci, Beppe Fiorello, Sabina Impacciatore, Massimo Ghini. In colonna sonora, una canzone inedita di Alessandro Sarcina. “Ragazzaccio” racconta di Mattia, un adolescente insofferente alle regole. Frequenta il liceo classico, è intelligente ma non si applica. Ce l’ha con la famiglia, ce l’ha col mondo intero. È quello che comunemente si direbbe un bullo. È il marzo 2020, scoppia la pandemia.

 


Ruffini, come è nato “Ragazzaccio”?
«Dall’esigenza di raccontare il periodo traumatico che abbiamo vissuto. Mi è venuto spontaneo immaginare un ragazzo sensibile e fragile che si ritrova chiuso in casa tutto il giorno, e pensa che il mondo faccia schifo, e in un certo senso non ha torto. E al computer, sfoga la rabbia, la frustrazione, anche la paura, architettando uno scherzo di pessimo gusto. Salvo poi innamorarsi, e scoprire che l’amore è il virus più contagioso di tutti, e un virus capace di redimere».


Leggo nelle note di regia che lei dedica il film ai cosiddetti ragazzacci “perché io stesso ero uno di loro”.
«Non ero proprio un bullo. Ero casinista, ero goliardico. Venivo regolarmente sbattuto fuori dalla classe. Le istituzioni ai tempi della mia adolescenza insegnavano l’esclusione. Oggi si parla tanto di inclusione, e va benissimo. Però anche oggi, noto una tendenza a bullizzare il bullo, mi passi il paradosso. Senza sforzarsi di capire il suo disagio. Questo disagio, amplificato dalla pandemia, è ciò che ho provato a raccontare».


Casinista lei lo è rimasto, mi pare. Indisponibile a farsi incasellare, a stare al suo posto. Voglio dire, lei è un comico ma ha girato due documentari come “PerdutaMente” (sui malati di Alzheimer) e “Up & Down”. Ora “Ragazzaccio”, il suo primo film drammatico di finzione.
«Vede, io sono terrorizzato dalla noia. Devo sempre imparare cose nuove, fare cose diverse. Sono anche un po’ incosciente, ho fatto “Up & Down” senza aver mai prima conosciuto persone con sindrome di Down, ora parlo di adolescenti pur non avendo figli. Coltivo la curiosità, e mi chiedo perché non facciano lo stesso tanti miei colleghi che continuamente si ripetono. Ciò detto, le confido una cosa: i film che mi costano più fatica sono quelli comici. Far ridere è una faccenda molto seria».


Torniamo a “Ragazzaccio”. Lo ha girato in una sola settimana: come c’è riuscito?


«È stata un’impresa resa possibile dalle lunghe prove con i bravissimi attori, dall’unità di luogo e dal fatto di essere arrivato sul set con le idee molto chiare. Tengo a precisare. Pur girato così velocemente, questo è un film concepito per il grande schermo, non è di quei film che chiamo verticali: già formattati per finire sulle Instagram Stories. È cinema, l’unica arte che è un mondo, e il social più potente che esista». Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico