Pannofino in “Mine vagante” a Fabriano e Ancona: «Seguo le orme di Fantastichini, un grande attore che ho molto ammirato»

Pannofino in “Mine vagante” a Fabriano e Ancona: «Seguo le orme di Fantastichini, un grande attore che ho molto ammirato»
ANCONA - A Fabriano e ad Ancona, l’apertura della stagione di prosa è siglata da “Mine vaganti”, che Ferzan Ozpetek, autore del film omonimo, ha...

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ANCONA - A Fabriano e ad Ancona, l’apertura della stagione di prosa è siglata da “Mine vaganti”, che Ferzan Ozpetek, autore del film omonimo, ha elaborato per il teatro. La pièce sarà al Gentile di Fabriano martedì primo novembre (ore 21). Poi, con quattro repliche, dal 3 novembre (ore 20,45) a domenica 6 (ore 16,30), la compagnia va in scena al Teatro delle Muse, capeggiata da Francesco Pannofino, che si definisce “capocomico”. Nei panni di Vincenzo Cantone, interpretato nel film da Ennio Fantastichini.


Che effetto le fa? 
«Mi sono sentito molto onorato, quando Ferzan mi ha offerto la parte di un grande attore, che ho molto ammirato. Mi inorgoglisce e, fin dalle prime prove, seguire le sue orme, pur con la mia personalità, mi ha entusiasmato».

 
E come si è calato nel ruolo di un industriale di provincia tradizionalista, miope, malato di omofobia e razzismo? 
«Di lui, del suo carattere e del suo comportamento, non condivido assolutamente niente. Spero bene di essere assai più open-minded e moderno. È un uomo che nega le trasformazioni della società, e vive male quella che considera una tragedia sociale, avere due figli gay, che lo espongono a vergogna e scherno agli occhi della comunità. È cresciuto in un ambiente in cui la mascolinità è un valore indiscusso, con tutto quello che ne consegue, e non sa accettare la realtà, fino alla fine della vicenda. Forse la prima vittima dei pregiudizi è lui stesso. Infatti risulta patetico».
In particolare, quando tiene il suo discorso in piazza?
«Esattamente, in quel suo monologo, pieno di luoghi comuni. Il regista, nell’adattamento teatrale, alla fine del primo atto, sposta la scena in platea, in mezzo al pubblico: aveva bisogno di simulare realisticamente il contesto sociale, in cui Vincenzo si abbandona alla sua reazione, una sorta di meschina petizione di principio». 
Com’è stato lavorare con Ferzan Ozpetek?
«Un grande professionista, attento a ogni minimo particolare, che ha saputo dare il meglio di sé anche nella resa teatrale. Molto esigente, ogni tanto, durante la tournée, ci raggiunge in questa o quella città, ci osserva attentamente e poi ci rassicura: è soddisfatto. Talvolta, “raddrizza” certe libertà che ci è capitato di prendere in scena: minuzie, ma che lui non trascura. E noi non ce la prendiamo. Ha sempre ragione, ma a volte succede che sfugga un gesto in più, un’espressione diversa. La tournée è lunga, faticosa».
A proposito di fatica, è più comodo recitare per il cinema?
«Mica tanto, per andare sul set ci si alza sempre molto presto, la mattina». Ride. 
Quale genere preferisce?
«Non saprei cosa rispondere, anche perché il segreto è fare tante cose: cinema, doppiaggio, teatro. Tutto questo è la mia vita. Però, il valore aggiunto del teatro, è rappresentato dal pubblico, che senti fremere nel buio, commuoversi e ridere. Che ti applaude a lungo, come è accaduto per ognuna delle 130 repliche di “Mine vaganti”, puntualmente ogni sera».
E che poi l’aspetta all’uscita. 


«Certamente, con abbracci e selfie, che io non farei con un attore provato dalla recitazione, tutto sudato». Si mette a ridere di gusto. Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico