Malosti regista e interprete di “Se questo è un uomo” alle Muse di Ancona: «Sono innamorato della lingua di Levi»

Valter Malosti in una scena di “Se questo è un uomo”
ANCONA - Portare in scena “Se questo è un uomo” è un cimento da far tremare le vene e i polsi. L’ha affrontato Valter Malosti, assieme a...

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ANCONA - Portare in scena “Se questo è un uomo” è un cimento da far tremare le vene e i polsi. L’ha affrontato Valter Malosti, assieme a Domenico Scarpa: sarà alle Muse di Ancona oggi pomeriggio alle 16,30, per la stagione di Marche Teatro, fuori abbonamento.


Valter Malosti, ci racconti la genesi di questo lavoro.
«Quando, nel 2010, ho messo mano, con lo stesso Scarpa, a “Il segno del chimico”, mi sono innamorato della lingua di Levi, che letta ad alta voce ha una diversa risonanza. Per questo, non mi ha spaventato accingermi a questa drammaturgia, nel primo centenario della morte dell’autore. Ha una potenza nascosta, che va anche al di là del valore di testimonianza storica. Levi riesce, con la lingua asciutta e vibrante, a dar suono alla fabbrica di morte del lager, ma ancor più alle voci intime».
Lo spettacolo ha debuttato alla fine del 2019. Torna ora in tournée. Cosa è cambiato, da allora?
«Abbiamo avuto la fortuna di riuscire a presentarlo prima della pandemia, con i teatri al completo: un miraggio, oggi, e non sappiamo quando si realizzerà di nuovo. Ma ritengo che si debba tenere duro, il teatro è e deve restare un presidio, con la massima sicurezza per tutti, attori e pubblico».
E in lei, che oltre a firmare la messinscena, interpreta “Se questo è un uomo”, che sentimenti?
«L’emozione di tornare in scena dopo un anno e mezzo, durante il quale ci siamo sentiti come leoni in gabbia. Ma è evidente che questa tragedia resta nel cuore, non puoi prescindere dal sentimento del tempo. E poi anche gli spettatori sono cambiati, ancor più di noi, non sappiamo ancora quanto. È forte la tentazione di rinchiudersi, di difendersi, ma proviamo a elaborare il lutto».
Nel realizzare il suo lavoro sul testo, ha privilegiato l’opera che Levi definisce “di chimico che pesa e divide, misura e giudica su prove certe, e s’industria di rispondere ai perché”. O ha preferito l’espressionismo drammatico?
«Sono le parole di Levi a comandare: niente virtuosismi. Ho dato seguito all’impressione che ci troviamo davanti a una tragedia antica, dove anche il canto è fondamentale. Al testo del libro abbiamo infatti aggiunto alcune sue poesie, trasformate in madrigali dalla maestria di Carlo Boccadoro, tra cui quella che ne è sintesi: “Voi che vivete sicuri/nelle vostre tiepide case,/voi che trovate tornando a sera/il cibo caldo e visi amici:/considerate se questo è un uomo“. I momenti di lirismo si incastonano nel racconto, durissimo, come momenti colorati, oasi cristalline».
Tipico della tragedia classica.
«Come il fatto che il tema, che appartiene a una precisa esperienza storica, si allarga all’infinito. Quando recito, mi accade di andare in cortocircuito col presente, com’è successo a lui stesso. Per questo arriva alla sensibilità delle giovani generazioni, come ho visto succedere negli incontri con gli studenti, dai quali ho ascoltato osservazioni illuminanti».
Che posto occupa “Se questo è un uomo” nella sua carriera?

«Importantissimo, mi ha segnato profondamente. E mi ha costretto a rileggere tutto Levi, compreso quel “I sommersi e i salvati”, l’ultima sua opera prima di morire, che andrebbe fatta conoscere nelle scuole. Qui Levi rivela la sua natura di uomo che indaga, acuto, controcorrente, lucido e distaccato, ma anche capace di humour ed empatia». Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico