Arcevia, la polenta è la regina tutte le domeniche in 12 ristoranti

Arcevia, la polenta è la regina tutte le domeniche in 12 ristoranti
La polenta, anche detta polenda, pulenda, poenta o pulenta, uno dei piatti poveri dell’antica cucina contadina, è il protagonista assoluto dal 2006, di “Una...

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La polenta, anche detta polenda, pulenda, poenta o pulenta, uno dei piatti poveri dell’antica cucina contadina, è il protagonista assoluto dal 2006, di “Una domenica andando a polenta” nelle quattro festività di febbraio e nelle prime due di marzo, che si celebra, con grande partecipazione di numerosi estimatori provenienti da tutta Italia e dall’estero, in tutti i ristoranti della terra di Arcevia.




Le domeniche della polenta
Una vera e propria festa per il palato, per una manifestazione che è passata da una a sei domeniche nel giro di pochi anni, grazie ad una richiesta sempre maggiore per le caratteristiche eccezionali del mays ottofile, la cui coltivazione è stata ripresa proprio in queste zone. «Una polenta tra le più gustose e saporite che si possono ancora trovare tra le ormai rare sopravvissute alla devastazione di una modernità mal utilizzata» come ha scritto in una lettera il regista Ermanno Olmi, al presidente della Pro loco e dell’Accademia Misena di Roccacontrada, Alfiero Verdini. E non bisogna affatto stupirsi: la polenta ha il suo posto nella letteratura fin dai tempi antichi: se ne parla ad esempio nel “Codice Palladiano”, nelle “Satire di Persio”, nella “Materia Medicinale” di Discoride. Carlo Porta descrisse con precisione la ricetta di “polenta e osei”, fino addirittura ad un elogio della polenta, descritto da Arrigo Boito. Il legame con la letteratura e l’arte ha reso la manifestazione un punto di riferimento dell’enogastronomia e del turismo, per la raffinata ospitalità dei ristoratori, l’eccellenza dei prodotti, la ricchezza ambientale, artistica e culturale del territorio.

I vari tipi di polenta
Il cereale di base più comune per la polenta è oggi il mais, ma ne esistono varianti più antiche con farro o segale, miglio, grano saraceno, frumento e, in misura minore e più tardivamente, anche grano saraceno, importato dall’Asia. Il mais infatti, fu una delle preziose colture arrivate dalle Americhe solo nel XV secolo. Le origini del termine polenta sono latine (puls), ma si trattava di un preparato al farro, mentre i greci utilizzavano l’orzo. Nelle zone montane si usano anche farine di castagne e di fagioli, dando origine ad un impasto più dolce. La polenta, con numerose varianti, è diffusa anche in Ungheria, a Malta, nei territori francesi della Savoia e della Contea di Nizza, della Guascogna e della Linguadoca, in Svizzera, Austria, dalla Croazia all’Ucraina e, ovviamente, nei paesi del Sud America. La miglior macinatura è quella a pietra, detta anche “bramata” e, tradizionalmente, viene presentata proprio come si versava nelle antiche tavole contadine, su un asse circolare, coperta da un canovaccio. Viene servita, a seconda della sua consistenza, con un cucchiaio o tagliata a fette, con un coltello di legno o con un filo di cotone, dal basso verso l’alto.

Mais o mays?
Il mais, nella lingua Aruaca degli indigeni Maya, si scrive “mays”: fu portato in Spagna da Colombo nel 1493 e le Marche iniziarono a coltivarlo all’inizio del ‘700. Ma nel 1950 quel prezioso mais, chiamato volgarmente granturco, fu sostituito in breve tempo, da mais ibridi o dentati, provenienti dagli Stati Uniti e dal Canada caratterizzati da un maggior rendimento unitario. «In 10 anni sparì la coltivazione del mais originario delle Americhe - racconta Verdini - e ne erano rimaste poche tracce, se non per la sana testardaggine di qualche vecchio contadino attaccato alle tradizioni. Purtroppo, un’altra delle condizioni che ha fatto sparire l’antico mais è stata la scomparsa dei mulini a pietra, sostituiti dai mulini a cilindro dove le 4 o 5 coppie di cilindri, con una velocità di circa 300 giri al minuto decorticano completamente la parte esterna svuotando di sostanze la farina. Si consideri che nel mulino pietra la velocità è di circa 120/130 giri e la farina non si surriscalda, mantenendo inalterata la gran parte dell’esterno della cariosside». Dalla primavera 2005, nell’azienda agricola di Lorena e Marino Montalbini a Magnadorsa è nuovamente seminato, raccolto, scartocciato, gramolato anche a mano, il granoturco tradizionale chiamato “mays ottofile di Roccacontrada”, così denominato e ben riconoscibile dal numero delle file delle cariossidi presenti nella spiga e dal nome antico di Arcevia, inserito nelle tipicità della regione Marche dal 15 giugno 2007. Sono nati così gli “agricoltori custodi” che si occupano di mantenere la genuinità della filiera, che si troveranno domani ad Arcevia per la rete nazionale dello Slow Mays che va dall’Abruzzo al Piemonte. L’incontro favorirà lo scambio di esperienze e stabilirà un decalogo ed un codice di comportamento da utilizzare dalla lavorazione del terreno fino alla custodia e macinazione.



Le ricette
Nella tradizione l’acqua doveva quasi arrivare a bollire e con la mano destra o sinistra, come si seminasse, si versava lentamente il grano girando molto lentamente per evitare i grumi, per una cottura che poteva durare fino ad oltre un’ora. Poi, si riversava tutto sulla tavola e, quando era possibile, si condiva oppure si aggiungeva semplicemente l’olio o la sapa, mosto ristretto e dolce, a seconda della condizione economica della famiglia.

«Ora, noi buttiamo la farina a freddo - spiega Verdini - 1 chilo di farina ogni 5 litri e mezzo di acqua, ma il rito di girare lentamente è mantenuto. Nell’acqua fredda la farina si amalgama meglio e prende l’acqua senza stress». Il miglior abbinamento è ovviamente con la carne, di suino, cinghiale o capriolo, mentre sulla costa è più naturale quello con il pesce, ottima col baccalà, ma, per i vegetariani, la polenta si sposa benissimo anche con funghi, tartufi, fino ad una infinità di formaggi. Le modalità di vestire la polenta sono tantissime, ma i veri fan la gradiscono ancora con appena un filo d’olio, o, addirittura, senza niente per apprezzarne al massimo l’aroma. Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico