FALCONARA - Arriva, agile e dinamica, i lunghi capelli sulle spalle, un fisico che non t’aspetti, dopo sette figli... «Di più! Ne ho persi tre». Orietta...
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Quindici anni a lavorare da un commercialista. Nell’88 conosce Amedeo, si sposano l’anno dopo. Insieme cominciano un percorso con il cammino Neocatecumenale, uno dei nuovi carismi della chiesa cattolica. «Eravamo alla ricerca di qualcosa, ci ha colpito questa strada. Lì ho imparato che Dio provvede. Fidati della vita, e non ti mancherà mai niente. Infatti, se non fosse per quello che abbiamo maturato insieme nella comunità, non avremmo i nostri figli». Anche quando le cose vanno male, e il marito, geologo prestato all’insegnamento, è ancora precario, i bambini vengono, uno dopo l’altro. «Smettevo di allattare e restavo incinta. La gente, che non si fa mai i fatti suoi, si scandalizzava. Ancora uno? E mia madre, delle mie gravidanze era sempre l’ultima a saperlo. Si preoccupava. E pensare che io da giovane non volevo essere come lei, un po’ vittima della famiglia. Avevo paura che i figli mi togliessero la libertà. Poi, un pellegrinaggio in Polonia, alla Madonna di Częstochowa, ci ha portato fino ad Auschwitz: la visita del campo di concentramento mi ha dato uno scossone». Sorride, quando ricorda che, al supermercato col passeggino, i figli piccoli e il pancione, la prendevano per «una sfigata o un’albanese». «Ma io ci credo, al ruolo di madre, un ruolo da ridisegnare per la donna. E al quarto figlio ho lasciato il lavoro. Mi piaceva stare in casa, fare le torte. I vestiti ce li passava una signora amica di mia zia. Io, che da ragazza mi vestivo Missoni, adesso mettevo abiti usati, ma non me ne importava». Però, quando la quinta, Miriam, compie dieci mesi, decide di iscriversi alle liste del Collocamento. «Per errore barrai la casella per un posto di sei mesi in Comune di Ancona. Avrei preferito molto meno. Mi chiamano, vado con il secondogenito Giovanni. Con mia sorpresa, mi fanno subito firmare il contratto, entro al Protocollo». Era il 2003. Doveva essere un impiego precario, è ancora in Comune. «Ho cominciato con orario ridotto, poi sono passata a tempo pieno. Infine la stabilizzazione, al tempo di Prodi». Orietta Piersantelli è ora nella segreteria generale del Comune. «Mi piace lo staff del sindaco Mancinelli, ci si lavora bene, e mi piace Giuseppina Cruso, la mia capa. Una bella squadra». Lei vede sempre il bicchiere mezzo pieno. «La sera, attorno alla tavola, se manca qualcuno ci sentiamo in pochi. Per la cresima di Sara, che fa la seconda media, ho fatto tutto da sola, in casa: una bella festa. E i miei genitori, che a ogni nuovo figlio si preoccupavano per noi, adesso trovano in loro la gioia più grande».
Aggrotta le sopracciglia, nel ricordo. «Quando è nato Marco, l’ultimo, che adesso ha dieci anni, con la sindrome di Down, Giovanni non l’ha presa bene. Sognava un fratello con cui giocare a pallone. C’è rimasto male. Inoltre Marco il primo mese ci ha dato qualche problema, ma adesso è la mascotte della famiglia». Nessuna premura diversa da quella riservata ai fratelli. «Anche con lui, conto fino a tre. E se non ubbidisce, agito in aria il mestolo di legno! Ora i grandi ci ridono, ma da piccoli avevano davvero paura. Però, se ricominciassi, forse sarei più severa». Ma ugualmente amorevole: per Marco nelle ore libere prepara cartelloni con le foto dei fratelli per aiutarlo a leggere, mette i numeri in fila attorno al tavolo per indurlo a memorizzarli. «Lui è un angelo. Simpaticissimo. Quando è nato, le malevole dicevano: peggio per lei, se l’è voluta! Ma c’è gente cattiva, che vuoi farci? Per noi è stato un arricchimento, ho conosciuto tante mamme come me, con cui condivido le mie esperienze. Ci chiamiamo le mamme Down». E alle altre, che direbbe Orietta? «Abbiate più fiducia in voi stesse». Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico