PESARO - Ci sono frasi che hanno un valore intrinseco che va oltre prove balistiche, ricostruzioni ed esami. Poche righe contenute in quasi 200 pagine, 186 per la precisione, di...
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Motivazioni che partono da «prove storiche e scientifiche» si legge. E di «alibi falsi». Il faro è la sentenza di primo grado che il presidente della corte d’assise d’appello d’Ancona Luigi Fanuli definisce «pregevolissima, di grande levatura tecnico giuridica».
Pagine in cui si pone l’accento sulle intercettazioni in carcere tra Sabanov e la madre. Il macedone non ha mai confessato l’omicidio, ma in lingua Rom ne parla coi famigliari. Ci furono due perizie sulle traduzioni. La prima definita “pessima” tanto da essere ritenuta “inutile”. Poi una seconda traduzione in cui Sabanov si sfoga: «Ho un gran peso nel mio cuore, è difficile. Penso sempre allo sbaglio che ho fatto». Viene consolato dalla madre che gli dice che anche se è un criminale è sempre suo figlio. Sabanov dice di voler dire tutto, che Andrea lo considerava come un figlio. E ancora: «Lo so che non è bello quello che ho fatto. Cosa dirà Andrea quando mi vede». Poi: «Non riesco a stare tranquillo, gli vedo la faccia piena di sangue. Quello che ho fatto a quell’uomo non è bello, lui si fidava di me. Non lo so cosa c’era nella mia testa. Ormai quello che ho fatto, ho fatto, non posso cambiare niente. Lo vedo negli occhi a terra, voglio dimenticare, come posso chiedere perdono a Dio». La corte le considera “ammissioni”.
Sabanov era dipendente in un distributore di Ferri, un rapporto di fiducia che si è incrinato col tempo. Per la corte Sabanov ha ucciso Ferri per rubare le chiavi del distributore Tamoil dove pensava di trovare una grande somma di denaro. Il primo furto la sera stessa dell’omicidio, ma era scattato l’allarme, poi il secondo furto il 7 giugno, ma furono le telecamere a incastrare Sabanov, fisico palestrato e camminata inconfondibile. Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico