Tradizione, arte e piatto gourmet Ecco sua maestà l’oliva fritta

Tradizione, arte e piatto gourmet Ecco sua maestà l’oliva fritta
ASCOLI - Ogni famiglia ha la propria ricetta che tramanda, gelosamente, di generazione in generazione. Perché preparare un’oliva fritta all’ascolana è...

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ASCOLI - Ogni famiglia ha la propria ricetta che tramanda, gelosamente, di generazione in generazione. Perché preparare un’oliva fritta all’ascolana è più di una tradizione, un’arte, e, da qualche anno un piatto gourmet con tanto di disciplinare. Chiunque intenda produrre e commercializzare «olive ascolane del Piceno» in salamoia o ripiena deve, infatti, attenersi scrupolosamente ai dettami del regolamento regionale 1855 dell’anno 2005 recepito dai decreti ministeriali 15 febbraio e 26 aprile del 2006 e dalla direttiva della Comunità europea, sempre del 2005.



La lavorazione dell’oliva Dop, poi, è sottoposta a una rigorosa verifica da parte dell’Assam (Agenzia servizi settore agroalimentare delle Marche). D’altra parte il segreto per un’ottima oliva fritta è, appunto, l’oliva «ascolana tenera», nota sin dall’epoca romana come «liva da concia». I latini chiamavano così quelle in salamoia, derivandone il nome dal verbo greco colymbáo, che vuol dire «io nuoto» proprio in riferimento al metodo di conservazione. Un piatto celebrato anche dallo scrittore Plinio Il Vecchio.

La versione ripiena e fritta è una ricetta già conosciuta nel 1800 quando i cuochi, che prestavano servizio alle ricche famiglie ascolane, inventarono il ripieno di carni di manzo, maiale e pollo. Solo da pochi anni l’ascolana tenera ha ottenuto il marchio Dop che ha riconosciuto al prodotto l’eccezionalità delle sue caratteristiche organolettiche e al territorio la naturale vocazione a produrle. Il disciplinare ne delimita le aree e le condizioni di produzione - la zona della vecchia provincia di Ascoli, Fermo compresa, dunque, e alcuni della provincia di Teramo per un totale di 89 paesi - le procedure per la lavorazione, gli adempimenti e i controlli a cui sono sottoposti i produttori. Il marchio Dop è garantito oltre che all’oliva in salamoia, all’oliva al naturale al quale è stato sottratto il sapore amaro con il sale e all’oliva ripiena, per la cui farcitura, le carni devono essere obbligatoriamente certificate. In tal modo i consumatori hanno la certezza di acquistare un prodotto di qualità e controllato in ogni sua fase di produzione.


Non bisogna però pensare che gli stretti canoni del disciplinare tolgano spazio alla fantasia delle massaie o di chi le produce per professione: «L’oliva- spiega Primo Valenti presidente del Consorzio di tutela - deve rappresentare almeno il 40% del peso totale del prodotto finito. Circa il ripieno (da allevamenti provenienti dagli stessi Comuni della Dop ndr) deve contenere: dal 40 al 70% di carne di bovino, suino dal 30 al 59%; è ammesso il 10 % di pollo. Ci devono essere almeno 100 grammi di formaggio secco grattugiato (parmigiano, grana o pecorino) e almeno 2 uova intere per chilo di impasto. Circa gli odori ci si può sbizzarrire, molti utilizzano la noce moscata, la salsa pomodoro o un po’ di burro. Ma la verifica importante è che, una volta panate, si intraveda il verde dell’oliva che il prodotto finito renda tra le 65 e le 90 olive per chilo e che il frutto sia, come detto, sia 400 grammi». Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico