PORTO RECANATI - Un “bagnino” sull’ Himalaya. Il suo nome è Matteo Flamini, un portorecanatese di 27 anni che fa il barman nello chalet di famiglia Bagni...
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Rientrato a Porto Recanati pochi giorni fa, Flamini sta spendendo i suoi ultimi giorni di ferie cercando di recuperare le forze dopo l’immane fatica dell’esperienza in Nepal. «Una fatica terribile – conferma – perché abbiamo fatto tutto il percorso di avvicinamento e scalata della montagna senza l’ausilio di sherpa e guide. A quelle altezze, portarsi dietro un carico di decine di chili di peso è asfissiante, e non avere una guida per orientarsi in un ambiente sconosciuto e per certi versi ostile è quasi da incoscienti. Ma è comunque un record. Poco fa ho detto abbiamo perché eravamo in due – Elio Gaetani e io – entrambi della sezione Cai di Macerata. Siamo stati in Nepal dal 20 ottobre al 9 novembre, venti giorni quasi tutti spesi per il viaggio di andata e ritorno a piedi da Lukla al campo base. Si tratta di 300 chilometri tra andata e ritorno. A Lukla si arriva con un aereo di piccole dimensioni partendo da Katmandu. Una volta che abbiamo visto davanti a noi l’Imja Tse siamo stati colti, almeno io, da una grande emozione. Da Lukla al campo base è praticamente una lunghissima camminata senza difficoltà da superare, ma una volta lì ci si deve organizzare per trovare le forze giuste per la scalata. Dal campo base (5.087 metri) siamo partiti all’una di notte per raggiungere senza eccessive difficoltà il campo alto (5.600 metri). Ma da qui inizia il difficile».
«Uno dice solo 600 metri di ascesa - continua Flamini - ma senza sapere a che cosa va incontro. Basti dire che devi attraversare un lunghissimo canalone camminando, tra neve e ghiaccio – sull’orlo di un burrone. Molti scalatori, una volta arrivati, lì tornano indietro. Ai 5.700 metri mi si è fermato il respiro e ho creduto di non farcela. Ma avevo con me un compagno di una forza fisica e morale eccezionale che mi ha incoraggiato a resistere e incitato a riprendere il cammino verso la vetta. Ci siamo fermati un po’ per recuperare le forze e poi via verso la sommità a furia di corda e piccozza. Gli ultimi 100 metri sono stati terribili, ma alle 11 la vetta dell’Imja Tse era sotto ai nostri scarponi. Guardare il mondo da lassù fa venire i brividi. Anche di notte il panorama è da fantascienza: a quelle parti le stelle sono grandi come lampioni e brillanti come diamanti di fuoco». Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico