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Nulla accade per caso. È attorno a questa frase che si snoda la vita di Elisabetta Garbati. Un assunto che torna dirompente, come un mantra, ogni volta che da bambina, giovane o adulta, la vita le indica la strada. La ginecologa, ora viceprimario all’ospedale di Civitanova, è nata, come lei stessa racconta, «all’alba di un giorno d’estate, ad Ancona. Mia madre non ha mai parlato del suo parto, come se fosse stato un momento da dimenticare».
Un anno e mezzo dopo la nascita di sua sorella e quel cordone ombelicale che le ha legate fino ai tempi dell’università: «Siamo cresciute con nostra nonna, perché mamma e papà lavoravano. Sin da piccole ci hanno sempre vestite uguali, gli stessi regali a Natale, le stesse foto insieme. A scuola ci chiamavano “le gemelle” e ammetto che questo, crescendo, mi dava fastidio, tanto che nelle foto indicavo con una freccia quale fosse mia sorella. Io volevo avere una mia identità».
Un’identità che si è ben presto manifestata in un carattere forte e indipendente «che forse, per l’epoca, faceva anche un po’ paura ai maschietti: si avvicinavano a me solo per corteggiare mia sorella». Il coraggio e la determinazione si fanno spazio in lei sin da bambina, da quando un incidente domestico, all’età di dieci anni, le indica la strada da intraprendere da adulta. «Io, mia sorella e nostro cugino stavamo giocando a casa di nonna quando il vetro di una porta si ruppe e mi cadde addosso ferendomi un piede.
Com’era? Ah, nulla accade per caso. «Mi tornò in mente l’episodio della ferita al piede e scelsi Medicina». Sua sorella invece optò per Ingegneria: «Così abbiamo preso per la prima volta due strade diverse». Furono anni di studio e di lavoro: «Oltre alla paghetta dei miei facevo ripetizioni a casa e mi improvvisavo corriere per trasportare i rullini fotografici da sviluppare per i fotografi della zona». Ma l’impegno nello studio fu totale: «Ero una perfezionista e rifiutavo i voti che non mi piacevano. Rifiutai pure il 23 di Anatomia umana al secondo anno con l’obiettivo di prendere 30 e questo mi portò a finire con un anno di ritardo». Alla laurea il massimo dei voti, la valigetta di cuoio da medico regalatale da suo padre e gli incarichi nel Maceratese: «Le prime guardie mediche furono a Macerata, Matelica, Camerino, Tolentino. Quando suonavo alla porta dei pazienti mi aprivano e mi dicevano “Scusi, ma il medico?”. Ero talmente giovane che avevano dei dubbi».
Un altro bivio quello della specialistica: «Feci diversi tirocini, in ginecologia ebbi l’opportunità di assistere a un parto e l’emozione fu così forte da scoppiare a piangere. Non potevo fare altro che seguire quella strada». Finita la scuola, la prima esperienza in ospedale a Macerata: «Il mio prof mi disse che il primario di Macerata aveva bisogno di coprire un posto per tre mesi, nell’attesa dell’arrivo di un altro medico. Andai a Macerata, ma il mio successore non arrivò e io rimasi per anni».
E la passione per il cinema? «Da bambina amavo collezionare i Topolino, non li leggevo, ma mi piaceva averli. Un giorno, sfogliandone uno, fui colpita da un’intervista a Bud Spencer. Gli scrissi una lettera confidandogli che avrei voluto fare l’attrice e la diedi a mia nonna chiedendole di spedirla. Non ebbi mai una risposta e quella fu la prima delusione della mia vita. Quando nonna morì andammo nella sua casa: in un cassettino ritrovai la lettera che non era stata spedita. Allora iniziai a riprendere in mano la mia passione per il cinema ed è così che è nato il cortometraggio “E tutto iniziò a tremare” (tratto dal libro di David Miliozzi). Come posso non ribadire che nulla accade per caso?».
Corriere Adriatico