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Lo sversamento di circa mille tonnellate di petrolio, avvenuto l’altra domenica al largo delle coste israeliane rappresenta uno dei disastri recenti più gravi. Ricorda per gravità quelli avvenuti in Mar Ligure nell’Aprile del 1991 della Haven e dell’Agip Abruzzo. Erano 30 anni che non si verificavano incidenti così gravi. Le conseguenze sull’ambiente marino e sull’economia locale di questi disastri sono enormi. Le coste inquinate hanno effetto sul turismo, i fondali inquinati bloccano la pesca. Il disastro in Israele avrà conseguenze analoghe. Il petrolio è arrivato nella Riserva Naturale di Gador, che ospita pesci, tartarughe marini e uccelli che sono stati imbrattati di catrame. Il petrolio e altri idrocarburi rilasciati da una nave hanno inquinato con catrame oltre 200 km di spiagge in Israele, e forse hanno provocato la morte di una giovane balenottera che si è spiaggiata poco dopo. Centinaia di volontari stanno cercando di ripulire le coste e di salvare gli animali incatramati. Il bitume sembra essere arrivato fino alle coste meridionali del Libano. Non sono ancora chiare le dinamiche dell’incidente ma questo disastro ambientale dimostra quanto ancora sia rischioso il trasporto di greggio del Mar Mediterraneo, che ospita circa il 15% del traffico marittimo globale e il 30% del traffico di idrocarburi. Il Mare Nostrum è uno dei mari economicamente più importanti al mondo e genera un valore economico annuale di circa 500 miliardi di euro, pari a un quarto del Pil dell’Italia. Nonostante l’attesa svolta Green sia in Europa sia in Italia, nei prossimi anni l’estrazione di petrolio e di gas metano non rallenteranno, anzi è prevista un’ulteriore possibile espansione dovuta all’allargamento del Canale di Suez (raddoppio rispetto a pochi anni fa). Questo, oltre a aumentare il traffico marittimo e aumentare la possibilità di incidenti in Mediterraneo, metterà ancora più a rischio il gli ecosistemi del Mar Mediterraneo a causa della sempre più forte espansione delle specie aliene che proprio nel canale di Suez trovano un’autostrada aperta per spostarsi dal Mar Rosso al Mare Nostrum. L’aumento del traffico marittimo avrà effetti anche sui grandi cetacei, sempre più frequentemente soggetti a collisioni con le grandi navi. L’unica soluzione per fronteggiare i tempi bui che ci aspettano è rispettare l’Agenda 2030 che abbiamo sottoscritto. Ovvero impegnarci a proteggere il 30% dei nostri mari. Uno studio appena pubblicato da ricercatori internazionali insieme al WWF, spiega che se entro il 2030 venisse protetto il 30% del Mediterraneo con un network di Aree Marine Protette (Amp), gestite in modo efficace si potrebbe garantire la sopravvivenza del nostro mare rendendolo capace di resistere agli impatti dell’uomo e dei cambiamenti climatici. Attualmente solo il 9,68% del Mar Mediterraneo è protetto da aree marine protette, ma la percentuale scende sotto al 5% per le coste italiane. Se guardiamo la distribuzione delle aree marine protette nel nostro paese vediamo che solo 3 regioni costiere non hanno aree protette: Marche, Emilia Romagna e Veneto. Le altre ne hanno da una a 6 per regione, e numerose altre sono in via di istituzione. Proteggere in modo efficace almeno il 30% del Mar Mediterraneo ci aiuterà a rigenerare gli ecosistemi naturali, mitigare gli impatti dei cambiamenti climatici garantire salute e benessere alle comunità locali (basti pensare all’importanza del turismo a mare) e, non meno importante, ricostituire gli stock ittici assicurando un futuro alla pesca.
* Docente all’Università Politecnica delle Marche e presidente della Stazione zoologica-Istituto nazionale di biologia, ecologia e biotecnologie marine
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Corriere Adriatico