Il drammatico aumento dei casi di suicidio e l’indifferenza come strategia difensiva

Il drammatico aumento dei casi di suicidio e l’indifferenza come strategia difensiva
Un uomo di 46 anni residente a Montegranaro è stato trovato...

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Un uomo di 46 anni residente a Montegranaro è stato trovato cadavere all’interno di un casolare semi-diroccato a Cingoli, nel Maceratese. Sarebbe stato un mix di alcol e farmaci a causarne la morte, all’interno di un progetto suicidiario posto in essere dopo aver raggiunto la località montana in sella alla sua moto. Anche se lo strumentario analitico dei classici della sociologia appare decisamente arrugginito, quello che E. Durkheim definiva “suicidio anomico” è forse la tipologia suicidiaria che più si avvicina alla connotazione “occidentale” di gesti come quello di Cingoli. Intendendo con “anomia” una grave mancanza di valori e riferimenti ideali, il suicidio vi si produceva come incapacità di sopportare improvvise retrocessioni economiche che abbassano il proprio tenore di vita. Tuttavia il suicidio anomico riguardava anche la tragedia di chi smarrisce sè stesso all’interno di una società che, inseguendo il mito del benessere, evolve troppo in fretta scatenando sull’organizzazione psico-biologica individuale delle pressioni insostenibili. Durkheim teorizzò anche il suicidio “fatalistico” che si ha quando esiste una sorta di disciplina istituzionale/organizzativa caratterizzata da prescrizioni troppo rigide, che impediscono all’individuo di emergere, stritolato dalla necessità di seguire le traiettorie esistenziali espressamente richieste dal ruolo sociale. Probabilmente l’azione suicidaria di cui ci occupiamo è una sintesi tra le due fattispecie durkheimiane, aggravata e resa specifica non solo da inedite condizioni tipiche dell’attuale contesto sociale, ma dalla costante ridefinizione del rapporto individuo/società. Il soggetto tardo moderno appare spaesato: senza punti di riferimento ideologici, affettivi o temporali. La psicopatologia studia le frequenti ricadute, in chiave di sofferenza individuale, dei rapidi cambiamenti intercorsi nella struttura della società dominata dai processi di razionalizzazione tecnologica. Non abbiamo di fronte il malessere della civiltà descritto da Sigmund Freud, esprimentesi in un disagio che trovava nell’isteria l’espressione patologica di angosce ed inibizioni indotte dall’intimata rinuncia alla gratifica immediata. Al contrario, le nuove patologie si distinguono non tanto per l’eccesso di inibizione, ma per il difetto di controllo della stessa, esprimendo l’impossibilità di dare un senso agli impulsi. L’antropologo e linguista Jean Gagnepain, sostiene che “assistiamo alla trasformazione di quelle che erano le patologie dell’inibizione e del controllo – isteria o nevrosi – in quelle definibili come patologie dell’eccesso e dell’agire, rubricabili come discontrollo di impulsi sovente in balia delle logiche dell’addiction. In sociologia si è sempre considerato il disagio individuale come disagio sociale, nel tentativo di ricondurlo alle categorie di devianza e di malattia avallando un taglio epistemologico fondato sulla causalità. Stando a questo modello sociologico consolidato, i valori di una determinata cultura vengono trasmessi al singolo sistema di personalità man mano che l’individuo sviluppa progressivamente la sua appartenenza sociale. Ciò è tuttavia possibile solo se si mantiene intatto un sistema di fini ultimi (Telic System) sovraordinato tanto alla durata storica, quanto ai tempi di costruzione della personalità che, inserita nelle diverse fasi della socializzazione, coordina i tempi psico-biologici alla temporalità esterna dei sistemi sociali. Tuttavia, l’incremento delle logiche alla base dei processi di velocizzazione/razionalizzazione, fino al cambio d’epoca digitale, hanno reso simmetriche le temporalità in oggetto, rendendole non più sovrapponibili. Appare evidente come il modello descritto da Michel Foucault che vedeva nella costruzione della soggettività degli individui il mantenimento di un ordine costante e routinario funzionale al binomio riconoscimento/produzione, non sia più applicabile al contesto attuale. I processi e le strategie tendenti a regolare ed organizzare il comportamento umano, mirano alla costruzione di un soggetto pulsionale disinibito che non si domanda che cosa vorrebbe possedere tra le cose che non è ancora riuscito ad accaparrarsi, ma quale repertorio esperienziale debba aprirsi nel suo orizzonte di vita. Il Prof. Mauro Croce, studioso dei fenomeni delle dipendenze patologiche, sostiene che si tratta di una modalità che ricorda la dipendenza da sostanze, “dove la motivazione, l’aspettativa e la relativa coazione a ripetere sarebbero legate agli effetti immediati piuttosto che all’acquisizione di un bene durevole”. Noi siamo costantemente alla ricerca di nuove esperienze da vivere, cioè di emozioni da consumare e non di oggetti da possedere e potrebbe succedere che un suicida si renda conto improvvisamente di non poter più attingere a nessuna sorgente di esperienza. In un tale contesto l’addiction è il percepirsi come esseri umani sempre in ritardo sui criteri inclusivi dominanti; persone che possono recitare un ruolo solo potenziando dall’esterno le proprie capacità, paradossalmente mantenute nell’inadeguatezza dall’aumento costante dei criteri sociali di riconoscimento e di inserimento in specifiche dinamiche relazionali. Allora, una serie di condizioni socio-strutturali tendenzialmente predisponenti all’azione autolesiva grave, consisterebbe nella sintesi tra scomparsa di valori condivisi, moltiplicazione dei contesti identificativi della persona e frammentazione del suo nucleo identitario costantemente in balia delle irricevibili richieste conformizzanti dei sistemi sociali.



*Sociologo della devianza e del mutamento sociale Leggi l'articolo completo su
Corriere Adriatico