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Il Ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha annunciato un massiccio intervento per corsi di formazione digitale obbligatori per tutti gli insegnanti. Al contempo, l’astronomo Clifford Stoll, uno dei pionieri dell’intelligenza artificiale – divenuto un eretico high tech - ha affermato che l’educazione c’entra poco con l’alfabetizzazione informatica e che «la scuola è troppo importante per essere abbandonata ai fanatici delle neo-tecnologie ed ai modelli di essere umano che vanno costruendo». I recenti esami di maturità possono essere letti alla luce di questa dicotomia che nasconde paradossi laceranti alla base della crisi della professione docente da un lato e della c.d. “Emergenza educativa” dall’altro. Da diversi decenni i maturandi esprimono cognitivamente ed emotivamente la novità antropologica della condizione di nativo digitale. Homo sapiens sta diventando “homo videns” (G. Sartori) con la scuola che diventa un indicatore delle enormi difficoltà dei nativi a seguire ed orientarsi al carattere sequenziale dell’intelligenza cui il mondo adulto continua ad affidare la trasmissione dei saperi. La scuola sa di non poter fornire ai giovani validi strumenti capaci di valorizzare il loro specifico cognitivo e gli alunni sanno di non poter combinare molto con la struttura argomentativa di interpretazione del reale fornita dalla scuola, dato che le nuove generazioni appartengono ad una struttura sociale regolata da una semantica visuale che propone logiche osservative opposte a quelle espresse dal pensiero sequenziale e dalle visioni del mondo che vi si rispecchiano. Non solo, ma la scuola, digitalizzandosi, consente ai nativi digitali di produrre costantemente risposte a fronte di una scarsa elaborazione dei concetti, fenomeno che si ricollega all’allevamento mediatico che hanno ricevuto, esposti come sono stati a centinaia di ore di sole risposte (dai media) a domande che la loro psiche non era assolutamente capace di formulare. La digitalizzazione va di pari passo con la binarizzazione dell’osservazione del reale, un atteggiamento scarno e strumentale che si mostra coerente con i ritmi vertiginosi dell’accelerazione sociale in cui i giovani imparano a dire solo sì o no, incapaci di problematizzare l’interiorizzazione dell’inconscio sociale, dichiarandosi solo favorevoli o contrari a questo o quell’evento, senza presagire scenari più articolati dove le ragioni del cuore possano bilanciare quelle della mente. Il filosofo Umberto Galimberti sosteneva polemicamente che «a scuola non si fanno più i temi in classe, con i quali invece salterebbe fuori la soggettività della persona. Si fa la comprensione del testo scritto, che è una prestazione. Si va a guardare se un ragazzo ha una competenza linguistica, però chi sia questo studente, non interessa più a nessuno. (…) La scuola, proponendo programmi ministeriali, lascia credere alla maggioranza degli insegnanti che l’educazione altro non sia che un derivato dell’istruzione». Non è per niente così perché educare significa individuare la specifica intelligenza dei singoli avendo cura della loro condizione di unicità. Nessuno lo fa, con l’identità giovanile che si trasforma in un coacervo di visioni e prospettive non amalgamate, tra eccezionalità e disagio, tra “stupor mundi” e vergogna, tra unicità esibita e divorante bisogno mimetico. La questione assume un particolare valore per chiunque provi ad osservare le società contemporanee a partire dal paradosso psicologico che le attraversa; infatti, alcuni processi epocali tendono a limitare o negare il diritto alla soggettività, ma proprio perché le società contemporanee appaiono estremamente individualizzate, riemerge costantemente l’esigenza degli individui di confrontarsi con la loro “identità personale” (chi sono e come vogliono essere percepiti).
*Sociologo della devianza e del mutamento sociale
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