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I cambiamenti climatici rappresentano una delle sfide più rilevanti da affrontare. Ce ne siamo accorti quando, a partire dall’estate scorsa, si è fatto sempre più evidente il problema della crisi idrica, che di fatto, si è protratta fino ad oggi. L’Italia si trova nel cosiddetto “punto caldo mediterraneo”, un’area particolarmente vulnerabile dove la carenza idrica si unisce ai rischi naturali come i fenomeni di dissesto idrogeologico e l’erosione delle coste. Sappiamo già che con l’aumento delle temperature e l’intensificarsi di eventi estremi (come siccità, ondate di caldo e piogge intense) si amplificheranno i rischi ambientali, con impatti economici e sociali destinati solo ad aumentare. Insomma, siamo seduti su un enorme pentolone in ebollizione in cui le tragedie sono dietro l’angolo e in troppi casi già esperite. Come minimo dovremmo essere previdenti e all’avanguardia su questi fattori, a partire da un solido Piano di Adattamento ai Cambiamenti Climatici (Pnacc). In realtà, il Pnacc è pronto da tempo ma non è mai stato approvato e quindi mai messo in opera. Del resto, perché farlo? Fino all’estate scorsa zelanti opinionisti e politici, magari con laurea in filosofia, negavano l’esistenza stessa dei cambiamenti climatici ricordando estati caldissime della loro fanciullezza, o trasformavano il problema ormai confermato da dati scientifici in uno scambio di opinioni personali. In questo scenario da repubblica delle banane dove si vive alla giornata, pensare di attuare un piano di adattamento ai cambiamenti climatici sembrava essere un inutile esercizio di stile. E abbiamo perso tempo, proprio grazie a questa “cultura dell’oggi” che non vuole mai guardare al domani. La scarsità d’acqua colpisce prevalentemente le regioni del Sud Italia e dell’interno, interessa in modo crescente anche le regioni del Nord dove da tempo si assiste al grido di allarme dei glaciologi che denunciano la progressiva scomparsa dei ghiacciai alpini e colpirà sempre più anche le Marche che vedono nell’agricoltura una componente fondamentale della sua storia che rischia di essere sempre più marginalizzata in termini economici. Ma non riusciamo mai a imparare. Quanto vissuto nel 2022 è già accaduto nell’estate del 2017, quando sei regioni italiane si sono trovate a dover dichiarare lo Stato di Emergenza idrica. E accadrà di nuovo probabilmente anche la prossima estate. Cosa fare? Sappiamo che esistono importanti perdite di acqua dalle condutture di distribuzione e che potrebbero essere riparate, che potrebbero essere fatti ulteriori bacini di raccolta delle acque piovane, che potremmo riutilizzare meglio le acque reflue e costruire desalinatori per usare l’acqua di mare. Ma cosa sceglieremo di fare? Avremo soluzioni diverse in diverse regioni, come sarebbe logico pensare? Si discute proprio in questi giorni della impellente nomina di un super-commissario che dovrebbe affrontare il problema della crisi idrica. Una cabina di regia avrebbe il compito di effettuare una rapida ricognizione delle opere e degli interventi da realizzare urgentemente per far fronte alla crisi idrica, ma non faremo in tempo a risolvere il problema.
*Professore ordinario all’Università Politecnica delle Marche, titolare dei corsi di Biologia Marina, Ecologia
ed Etica ambientale
Corriere Adriatico