La crisi del manifatturiero: nella ricerca si investe poco

La crisi del manifatturiero: nella ricerca si investe poco
Dalla scorsa settimana ha avuto ampia eco su questo giornale la notizia dei potenziali esuberi di personale alla Elica Spa come conseguenza del piano di ristrutturazione aziendale...

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Dalla scorsa settimana ha avuto ampia eco su questo giornale la notizia dei potenziali esuberi di personale alla Elica Spa come conseguenza del piano di ristrutturazione aziendale e del possibile spostamento di parte della produzione dagli stabilimenti regionali verso siti produttivi in Polonia. Elica Spa ha chiuso il bilancio 2020 con una riduzione dei ricavi del 5,7%; una riduzione tutto sommato contenuta considerata l’eccezionalità della situazione. Ben più rilevante è stata la contrazione del margine operativo, che si è ridotto di oltre un terzo. Il piano di ristrutturazione non sembra però collegato all’andamento congiunturale ma a motivazioni di carattere strutturale, legate alla insufficiente redditività della attività produttive localizzate in Italia. Questo induce alcune riflessioni di carattere generale. In Italia e più ancora nelle Marche il sistema manifatturiero, che è il principale motore di creazione del reddito, è caratterizzato dalla presenza di settori a bassa e media tecnologia; settori ai quali appartiene anche la Elica. Per questa ragione la composizione dell’occupazione e delle produzioni manifatturiere risulta più vicina a quella che si osserva nei paesi emergenti piuttosto che a quella dei paesi industriali avanzati. A questi ultimi paesi cerchiamo di assomigliare per livelli di reddito pro-capite e, di conseguenza, di costi per le imprese. Una situazione che diventerà sempre meno sostenibile per buona parte delle attuali produzioni manifatturiere. Se vogliamo rimanere fra i paesi industriali avanzati dobbiamo dotarci di una struttura produttiva da paese industriale avanzato, riequilibrando il più in fretta possibile la composizione settoriale del nostro sistema manifatturiero. La classificazione dei settori in base al livello di tecnologia è stata introdotta dall’Ocse utilizzando un indicatore grossolano ma efficace: l’intensità della spesa in ricerca e sviluppo. In Italia e nelle Marche tale intensità è drammaticamente bassa. Nelle Marche la spesa in ricerca e sviluppo, pubblica e privata, è pari all’1% del Pil; in Italia all’1,4%. La media Ue è di poco superiore al 2%, all’incirca lo stesso valore della Cina, ma con grandi differenze fra i paesi a bassa intensità di ricerca, come l’Italia, e quelli ad alta intensità del centro e nord Europa. Il confronto diventa ancora più drammatico se usciamo fuori dalla UE: in Giappone si supera il 3%; la Corea del Sud è oltre il 4%. Non è solo una questione di spesa ma anche di persone in grado di fare ricerca e di utilizzarne i risultati. In Corea del Sud la percentuale di giovani fra i 25 e i 34 anni che hanno una laurea è il 70%, in Giappone il 62%, in Italia il 28%. Negli ultimi decenni si è consolidata l’idea che possiamo non preoccuparti di queste statistiche poiché il Made in Italy si affida a fattori di competitività diversi dalla ricerca e dallo sviluppo tecnologico: la creatività e il design; la sapienza artigiana; il collegamento con i territori. Tutte considerazioni importanti e condivisibili ma che hanno prodotto due risultati: di farci rimanere fuori dalle filiere che in questo momento presentano i più alti tassi di crescita e di redditività; di relegarci al presidio di nicchie sempre più limitate anche nei settori che dovrebbero vederci in posizione di leadership a livello mondiale: come l’alimentare, la moda o i prodotti per la casa. Settori nei quali, per le ragioni di costo prima richiamate, è essenziale controllare le catene del valore a livello mondiale e non necessariamente la produzione. Anche questi settori sono pesantemente investiti dalla rivoluzione digitale ed ecologica; una rivoluzione nella quale gli investimenti in ricerca e sviluppo conteranno più della creatività. Non vi è alcuna ragione storica o culturale per la quale l’Italia e le Marche debbano rimanere attestate a produzioni da paese emergente e non investire con maggiore decisione in produzioni e più alto contenuto tecnologico. Non sarà facile recuperare il terreno perduto; occorre tempo e una svolta significativa di impegno nella formazione e nella ricerca. Nel frattempo, dovremo abituarci all’idea di convivere con una lenta erosione dei livelli di reddito e di consumi.

 

*Docente di Economia alla Politecnica delle Marche e coord. Fondazione Merloni

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Corriere Adriatico