ROMA - Il giudizio di appello bis avrebbe dovuto accertare la causa della morte, verificare se e come il comportamento «palesemente inattivo» dei medici fu...
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Nelle motivazioni della sentenza con cui ha disposto un ulteriore processo per i medici che ebbero in cura Stefano Cucchi all'Ospedale Pertini di Roma, la Cassazione elenca i «vizi» della sentenza di appello bis che «derivano da una lettura parcellizzata e superficiale delle emergenze probatorie». Smonta l'impianto motivazionale che ha portato all'assoluzione dei sanitari dall'accusa di omicidio colposo, critica le decisione dei giudici di non aver disposto ulteriori approfondimenti per fugare eventuali «dubbi» e di aver impiegato la propria «scienza privata» per discostarsi dalle conclusioni dei periti. È l'anatomia di un processo, che - a distanza di 8 anni dalla morte nel reparto per detenuti dell'Ospedale Pertini di Roma del giovane geometra arrestato per droga - non ha trovato responsabili. Ma rischia di essere l'autopsia del processo, visto che la decisione della Suprema Corte è arrivata nell'imminenza della prescrizione del reato di omicidio colposo per il primario Aldo Fierro, Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi Preite De Marchis e Silvia Di Carlo.
Intanto le motivazione della Cassazione costituiscono un nuovo tassello, dopo la prima pronuncia della stessa suprema corte che era già intervenuta per annullare una prima assoluzione. È accertata nella sentenza di primo grado e nelle conclusioni dei periti, scrive il collegio della prima sezione penale in un passaggio della sentenza n. 46432, l'«intempestività e inadeguatezza delle cure derivanti dal comportamento palesemente inattivo dei medici».
Stefano non era stato informato dei rischi che correva proseguendo con il suo rifiuto di cibo e acqua: un rifiuto «non consapevole e quindi non effettivo», ma i medici si erano «trincerati dietro un mero adempimento burocratico», senza neppure coinvolgere la struttura gerarchica.
Corriere Adriatico